La caduta – Gli ultimi giorni di Hitler di Oliver Hirschbiegel, un film che è molto più di un film

La locandina del film

La caduta – Gli ultimi giorni di Hitler del regista tedesco Oliver Hirschbiegel, diciamolo subito, è molto più di un film, come vedremo. Cominciando, però, dall’inizio, dividerò il discorso in due parti, per chiarezza: la trama e tutto quanto va oltre il semplice intreccio.

La trama: volendo descrivere in sintesi di cosa parla il film, sarebbe sufficiente già quanto esprime il titolo. Si tratta della descrizione, come esso indica, degli ultimi giorni trascorsi da Adolf Hitler nel famoso bunker sotterraneo, edificato al di sotto del Reichstag. Il film alterna le vicende di Hitler e dei gerarchi nazisti rintanati insieme a lui nel bunker a quelle vissute dai cittadini comuni di Berlino, durante la marcia di avvicinamento al centro della capitale dell’Armata Rossa. Mentre, infatti, il Führer si trova quasi sempre sotto terra, sulla superficie si svolge quella che è divenuta famosa come la cosiddetta battaglia di Berlino. Quando i soldati dell’Armata Rossa entrano in città, si inizia a combattere strada per strada ed edificio per edificio, mentre l’intera Berlino viene sostanzialmente rasa al suolo o quasi. Ci troviamo nei giorni finali del Terzo Reich, quando ormai la Wehrmacht e le SS sono allo sfascio e i civili fuggono disperatamente dalle proprie case, mentre la battaglia infuria ovunque tra le truppe tedesche residue e i russi che avanzano, ormai con la vittoria in tasca.

Il film segue le vicende nel bunker e nella soprastante città di Berlino, fino a dopo il suicidio di Hitler quando, nell’arco di alcuni giorni, si verifica la capitolazione tedesca.

Oltre la trama: come ho accennato all’inizio, questo film non è semplicemente un film. All’apparenza può forse sembrare che le cose stiano così, ma la realtà è ben più profonda.

Bruno Ganz nel ruolo di Adolf Hitler

Innanzitutto va detta una parola sul protagonista, lo svizzero Bruno Ganz. Ganz offre una prova d’attore decisamente straordinaria, nei panni di un Adolf Hitler ormai giunto al capolinea della propria esperienza. Egli riesce a trasmettere davvero un ritratto di Hitler a tinte forti, passando per tutte le sfumature possibili dei suoi stati d’animo, senza trascurare di trasmetterne l’evidente esaurimento fisico riferito da molti testimoni diretti.

In questo aspetto, ovvero nella resa umana di Hitler, si può trovare uno dei punti di forza e di interesse del film. Il regista e gli sceneggiatori, infatti, non si sono tirati indietro di fronte agli aspetti più controversi e delicati delle questioni in gioco, come quella dell’umanità di Hitler, e non si sono nemmeno astenuti dal mostrare da che parte stanno. Qui non stiamo parlando, come molto spesso (istericamente) si tende a dire, di equiparare l’umanizzazione con la giustificazione di Hitler. Qui si tratta di riconoscere, come gli autori del film hanno fatto, che Hitler era un uomo in carne ed ossa e che questo è un dato di fatto. Finché non si accetterà fino in fondo questa constatazione e non se ne trarranno le dovute conseguenze, sarà piuttosto difficile compiere passi avanti nella comprensione di quanto è accaduto in Europa e nel mondo prima, durante e dopo il Terzo Reich. Se Hitler era un uomo (e lo era), diventa fondamentale indagare come e perché egli sia diventato proprio quell’uomo e non un altro.

A questo proposito, va segnalato che il film fa riferimento, tra le altre cose, ai fondamentali lavori di ricerca storica di Joachim Fest, uno storico tedesco che ha scritto pagine di importanza assoluta sulla biografia di Hitler e di diversi dirigenti nazisti. Una delle caratteristiche delle opere di Fest, prima fra tutte la sua monumentale biografia di Adolf Hitler di circa 800 pagine, è proprio quella di dedicare una grande attenzione all’approfondimento psicologico, pur restando nell’ambito della ricerca storica. Senza questa considerazione e, a mio parere, senza la lettura di quanto Joachim Fest ha scritto, la comprensione dell’intero film può risultare ostica.

Dopo quanto ho appena illustrato, può forse apparire più chiaro un altro aspetto fondamentale di questo film, ovvero il fatto che, attraverso le vicende accadute nel bunker e lo sguardo ravvicinato su Hitler, vi sia l’evidente scopo di puntare l’obiettivo sulla mentalità e la psicologia dei dirigenti (ma anche di molti uomini comuni) del movimento nazista. Anche qui, è necessario andare oltre lo schematismo banale che vuole equiparare la comprensione dei meccanismi umani e psicologici dei nazisti con la loro giustificazione. Uno degli aspetti più duri da affrontare, quando si parla di Terzo Reich, è proprio questo: i suoi dirigenti, così come tutti i suoi membri di basso livello e la popolazione simpatizzante, erano uomini in carne ed ossa. Lo stesso discorso di cui ho parlato qualche riga più sopra a riguardo di Hitler, va riproposto anche per tutta questa moltitudine di persone. Il film vuole chiaramente mettere in evidenza, come del resto fanno tutte le ricerche storiche serie (si veda al proposito e a titolo di esempio anche l’attività dell’Auschwitz Memorial, l’ente che gestisce il sito dell’ex campo nazista, oppure il libro KL – Storia dei campi di concentramento nazisti di Nikolaus Wachsmann), come i nazisti fossero contemporaneamente degli assassini  e dei padri e madri amorevoli, contemporaneamente degli spietati pianificatori di omicidi di massa e affettuosi mariti e mogli, capaci di altruismo e amore verso coloro che li circondavano.

La prova di recitazione eccezionale di tutti gli attori coinvolti nel film aiuta a mettere in evidenza proprio questa apparente contraddizione, insita nell’umanità di quanti hanno dato vita al regime nazista (ma argomenti simili valgono anche per il caso fascista italiano).

Una scena del film in cui compaiono Hitler (a sinistra) e Albert Sperr (a destra)

Un altro punto importante del film, che merita di essere almeno tratteggiato, è quello del ruolo del suicidio e della morte nella mentalità e nella prassi nazista, specie all’interno delle SS. Nel corso del film, questo aspetto gioca un ruolo piuttosto importante, così come lo è stato nella realtà. Qualcuno potrebbe essere tentato di liquidare la questione come una sorta di vezzo estremo e macabro di uomini i quali, di vezzi estremi e macabri, ne avevano numerosi. Questo punto di vista, sebbene possa essere umanamente comprensibile, non mette correttamente a fuoco la questione. Il film evidenzia molto bene come il suicidio (una scelta che ha finito con l’accomunare Hitler a moltissime persone, nei giorni della fine del regime) sia una scelta legata al tipo di mondo che i nazisti, ed Hitler prima di tutto, avevano in mente. Non a caso, infatti, Hitler intendeva il suo Terzo Reich come il Reich Millenario. Millenario per intendere come la sua fosse una missione di vita, che coinvolgeva tutto il popolo tedesco e tutto il mondo. Non si trattava solo di vincere una guerra o di instaurare un nuovo regime politico, ma di mettere in atto l’avvento di un nuovo ordine europeo e mondiale, del quale la Germania nazista avrebbe costituito il faro guida, innanzitutto culturalmente e artisticamente. Da notare, a questo proposito, come nel film compaia Albert Speer, l’architetto del regime, che discute con Hitler di fronte ad un grande modello in legno, raffigurante gli infiniti progetti architettonici del Führer per la nuova Germania. Hitler, infatti, non smise mai di progettare e disegnare edifici, viali e musei. Possiamo dire che il suo stile era esteticamente pessimo e tronfio (ed avremmo certamente ragione), ma il punto è comprendere quanto tutti questi aspetti fossero fondamentali nella visione del mondo che Hitler e i nazisti avevano in testa.

Tornando, però, all’argomento suicidario, bisogna concludere il discorso. Se il mondo secondo i nazisti aveva tali caratteristiche, è chiaro che, una volta posti di fronte all’implosione di questo stesso mondo, essi scegliessero il suicidio. Quella dei nazisti, infatti, era una missione di vita con caratteristiche veramente messianiche, che non contemplava una terza alternativa, oltre a quelle di realizzare il Reich Millenario o soccombere per sempre. Ecco, dunque, la ragion d’essere dell’argomento del suicidio e della morte, così fortemente presente nel film. È da notare, infatti, come nel film non si parli soltanto del suicidio di Hitler e di Eva Braun. Una parte rilevante, ce l’ha anche la famiglia Goebbels con l’omicidio dei sei figli e l’omicidio-suicidio dei coniugi Goebbels avvenuto subito dopo. Allo stesso modo l’obiettivo del regista viene puntato sul suicidio (o, in taluni casi, omicidio-suicidio) di diversi altri membri dell’apparato nazista a tutti i livelli.

Un’altra scena in cui si vede una giovanissima ragazza appartenente alla Gioventù hitleriana

Infine, senza dimenticare che il film si ispira anche alla testimonianza fornita da Traudi Junge, la segretaria di Hitler, un cenno in più al fatto che il regista e gli sceneggiatori non hanno limitato lo sguardo al bunker di Hitler, va fatto. L’ho già accennato, ma  aggiungo che viene descritta in modo dettagliato anche l’atmosfera che regna nelle vie di Berlino mentre l’Armata Rossa si fa sempre più vicina e la morsa sul Terzo Reich sempre più forte. Ci sono diverse scene di battaglia e viene posto l’accento, in particolare, sulla situazione psicologica (e ideologica) delirante e ben oltre il fanatismo, di alcuni nuclei, ormai isolati e votati all’autodistruzione, di membri della Hitlerjugend, la Gioventù hitleriana.

In conclusione, un film assolutamente da vedere, sebbene per essere apprezzato necessiti di una conoscenza almeno basilare della storia del Terzo Reich. Per comprenderne a fondo, invece, tutti gli aspetti è necessario rifarsi, quanto meno, alle fondamentali opere di Joachim Fest e George L. Mosse, senza le quali qualsiasi approccio agli eventi e ai personaggi della Germania nazista risulta, per forza di cose, monco.

Ad ogni modo, è un film fortemente consigliato, tenendo conto che non si tratta di una visione per stomaci deboli, ma di un film che può risultare molto disturbante. Anche per questa sua caratteristica, però, a mio parere ne esce un film ancora più fondamentale, in quanto difficilmente un film (o libro) serio sulla Germania nazista può non risultare disturbante.

Primo Levi e Heinz Riedt, il primo traduttore tedesco di Se questo è un uomo. Una storia tra letteratura e antinazismo.

Edit (ottobre 2022): Il pezzo che vedete qui sotto è stato scritto un paio d’anni fa circa e racchiude un breve sunto di alcune delle caratteristiche assunte dal Terzo Reich nelle sue fasi finali e della storia del fortunato incontro tra Primo Levi e Heinz Riedt, colui che per primo curò la traduzione tedesca di Se questo è un uomo. Scopro solo ora l’esistenza di un volume intitolato Partigiani della Wehrmacht – Disertori tedeschi nella Resistenza italiana a cura di Mirco Carrattieri e Iara Meloni, edito da Le Piccole Pagine. Il libro ripercorre, attraverso una serie di saggi scritti da diversi storici, il percorso, sia individuale sia collettivo, non solo dei disertori della Wehrmacht che entrarono a far parte della Resistenza italiana, ma anche di coloro che in essa ebbero un ruolo pur non provenendo direttamente dalla Wehrmacht. Uno dei saggi che compongono il volume riguarda proprio la figura di Heinz Riedt. Pur mancando alcuni dati sulla biografia di Riedt, vuoi per carenza documentale, vuoi per reticenze dello stesso Riedt, il testo riempie molti vuoti nella sua storia e ne traccia un profilo molto interessante, a partire dalla sua esperienza anteguerra, passando per l’arruolamento nella Wehrmacht, il soggiorno di studio in Italia dove incrocia la strada dei partigiani di Giustizia e Libertà e, infine, la sua vita nel dopoguerra nella DDR, cioè a dire il nuovo stato della Germania Est. Per chi è interessato ad approfondire il tema dei tedeschi non allineati al Terzo Reich, si tratta di un volume assolutamente consigliato.


Ho parlato, precedentemente, della Rosa Bianca e della poco conosciuta realtà dei tedeschi antinazisti. Nonostante l’assenza di un vero e proprio movimento di resistenza organizzata in Germania, rimane sempre di grande importanza sottolineare come il consenso al Terzo Reich e ad Hitler non fosse sempre completo e privo di crepe. Questo è un argomento che riguarda anche il mio secondo romanzo, nel quale ho voluto mettere in scena proprio un gruppo di tedeschi contrari al regime nazista, sebbene in un contesto distopico che vede la Germania vincente nel secondo conflitto mondiale.

Un’altra storia pressoché sconosciuta, parlando di cittadini tedeschi non allineati, è quella di Heinz Riedt, il primo traduttore tedesco di Se questo è un uomo di Primo Levi.

Facciamo, però, un passo indietro per capire meglio il contesto nel quale il libro di Levi raggiunge la Germania.

Primo Levi

Nel 1945, mentre il futuro autore di Se questo è un uomo assisteva alla liberazione di Auschwitz da parte delle truppe dell’Armata Rossa e intraprendeva, poi, un lunghissimo viaggio per rientrare in Italia, il Terzo Reich conobbe un vero e proprio collasso generale, con l’accerchiamento da parte di inglesi e americani (da ovest) e dei russi (da est). Alla fine di aprile, con l’arrivo dell’Armata Rossa a Berlino e con i combattimenti che si dispiegavano strada per strada, avvenne il crollo definitivo. Hitler, ormai chiuso nel bunker sotterraneo nei pressi del Reichstag, scelse la via del suicidio, una volta messo di fronte all’evidenza che il suo Reich Millenario era fallito e i soldati russi l’avrebbero raggiunto in poche ore. Con lui si uccise anche Eva Braun, sposata soltanto una manciata di ore prima della fine.

La Germania nazista, quindi, si dissolse, sebbene alcuni alti gerarchi cercassero di far perdere le proprie tracce, mischiandosi ai civili in fuga in tutto il paese. Un tentativo simile, ad esempio, fu intrapreso da Rudolf Höss, ex comandante di Auschwitz e figura di spicco del mondo dei campi nazisti. Höss fu, poi, arrestato e giustiziato proprio all’interno del campo di Auschwitz, dove aveva seminato il terrore qualche anno prima. Anche Himmler, dopo aver fallito l’approccio con gli Alleati, presentandosi di fronte a loro come il filantropo che aiutava gli ebrei e voleva intavolare negoziati di pace, tentò di sparire senza lasciare tracce, ma poi scelse, a sua volta, il suicidio. Fu piuttosto diffusa, in effetti, l’ondata di suicidi di membri sia di alto, sia di basso rango del movimento nazista, nella fase immediatamente successiva alla fine della guerra.

Alcuni altri tentarono, nonostante tutto, di darsi un contegno come dirigenti della ormai ex potenza nazista, come ad esempio Herman Göring il quale, comunque, finì suicida in carcere il giorno prima dell’esecuzione della sua condanna a morte.

Goebbels (seduto, a destra), la moglie e i sei figli

Altri ancora come Joseph Goebbels, il responsabile della propaganda del Terzo Reich, fecero una scelta simile a quella del loro mentore, Adolf Hitler. Goebbels e la moglie fecero ingerire del veleno ai loro sei figli; subito dopo, i coniugi Goebbels misero in atto un omicidio-suicidio e scomparvero per sempre dalla scena, insieme ai loro figli i quali, a differenza di loro, erano delle vittime innocenti.

Infine, un certo numero di dirigenti nazisti riuscì a lasciare la Germania o, dopo l’arresto dagli Alleati, riuscì ad indurre gli investigatori anglo-americani a credere nella loro estraneità con il regime.

Negli anni seguenti la fine della guerra, in Germania si tentò di ricostruire un’intera nazione dalle macerie lasciate ovunque dal regime hitleriano. Macerie non soltanto materiali, con l’intero paese distrutto, ma anche morali ed umane. Se gli edifici e le strade si possono riparare o ricostruire, non è altrettanto facile fare i conti con la connivenza di milioni di persone con un regime dedito al genocidio su larga scala, come quello nazista.

Sono questi gli anni durante i quali in Germania nessuno voleva sentir parlare delle responsabilità dei nazisti e di quelle, non meno gravi, della popolazione tedesca che gli aveva concesso l’opportunità di perseguire per anni le peggiori politiche di eliminazione degli oppositori, dei poveri, dei malati e, infine, di tutte le categorie di persone considerate indesiderate, come gli ebrei (ma la lista non si riduce solo a loro).

Dopo questa breve descrizione del mondo tedesco tra la fine della guerra e l’inizio della ricostruzione, torniamo ora a Levi.

In questo clima, del quale Primo Levi conosce bene le caratteristiche perché comune anche all’Italia e perché si tiene informato sulla realtà tedesca, compare una prima possibilità di far tradurre in tedesco Se questo è un uomo.

Una delle edizioni italiane del libro

Fin da subito dopo aver ultimato la stesura del testo (inizialmente rifiutato da quasi tutti gli editori italiani), Levi sperava di riuscire, un giorno, a far approdare il libro in Germania. Egli, infatti, volendo ricoprire fino in fondo il ruolo di testimone degli orrori dei campi nazisti, desiderava portare le sue parole anche ai tedeschi, nella speranza di costituire un piccolo tassello nella loro presa di coscienza di quanto accaduto durante il Terzo Reich.

Quando, dopo essere riuscito a far pubblicare il testo con un editore importante, gli comunicarono l’opportunità della traduzione tedesca, Levi ne fu subito profondamente emozionato.

Egli chiese subito di poter parlare con la persona incaricata della traduzione in Germania, prima di dare un’opinione quanto alla fattibilità del lavoro. Avviò, quindi, una fitta corrispondenza con Heinz Riedt, il traduttore incaricato dall’editore tedesco. Il motivo di questa mossa è che Levi non si fidava del tutto della buona fede dei tedeschi, e non a torto, in quegli anni. Come abbiamo visto, ci troviamo in un periodo nel quale ancora in Germania si tenta di evitare di parlare di Hitler, di campi di sterminio e di ideologia nazista, sebbene non più tardi le cose cambieranno radicalmente.

Un’edizione tedesca di Se questo è un uomo

Tutta la nazione tedesca, infatti, farà duramente i conti col suo passato nazista, cosa che, ad esempio, non è per niente accaduta in Italia col fascismo.
Dunque, Levi e Riedt si scrivono assiduamente. È così che lo scrittore italiano viene a sapere come il suo traduttore ha vissuto la sua giovinezza. Nel 1941 Riedt viene chiamato alle armi, ma simula una malattia, per evitare di andare in guerra. Ottiene il permesso di trascorrere la convalescenza in Italia, studiando letteratura italiana all’università di Padova. Qui, proprio all’interno dell’ateneo, entra in contatto con alcuni gruppi antifascisti italiani e così, dopo l’armistizio del settembre 1943, entra nei gruppi di partigiani di Giustizia e Libertà, i quali, sui colli euganei, combattono i fascisti della Repubblica Sociale di Salò e i suoi stessi connazionali presenti in Italia. Levi è entusiasta di apprendere i trascorsi di Riedt e non glielo nasconde, al punto che, oltre alle lettere, i due si incontreranno di persona in Germania.
Indubbiamente Riedt è stato un tedesco anomalo, rispetto alla media dei suoi connazionali del periodo nazista. È molto raro imbattersi in tedeschi antinazisti, che fanno di tutto per non arruolarsi nell’esercito e che non rinunciano ad imbracciare le armi contro i loro stessi connazionali.

Dopo la guerra, una volta rientrato in terra tedesca, Riedt lavorò, oltre che come traduttore dall’italiano, sia di autori antichi sia di moderni, anche in ambito teatrale. In seguito, dopo la costruzione del muro di Berlino, fu perseguitato dalle autorità della Germania Est, in quanto considerato disertore durante la guerra e in conseguenza della sua attività partigiana svolta in Italia. Costretto ad abbandonare la sua casa, si rifugiò nella Germania Ovest, dove continuò l’attività di traduttore.
Come dicevo a proposito del gruppo della Rosa Bianca, non tutti i tedeschi degli anni Trenta-Quaranta, erano nazisti, sebbene questa non sia una realtà ricordata di frequente. Tra l’altro i tedeschi che combatterono con i partigiani italiani non furono solamente limitati a qualche singolo caso come Riedt, sebbene questa sia una storia praticamente sconosciuta, così come la matrice internazionale della Resistenza italiana. Ma questa è un’altra storia e andrà raccontata un’altra volta.

Scrivere, pubblicare e promuovere un libro – l’incerta esistenza degli scrittori

Il mestiere dello scrittore è difficile, anche se a volte regala grandi soddisfazioni. Quando scorrete titoli e copertine in libreria, pensate anche a quanto sto per dire.
Mettiamo che tu scriva una storia, ad esempio un romanzo. Mentre lo scrivi hai mille dubbi. Non sai se sei in grado di portare a termine un testo così lungo, è la prima volta che lo fai. Sarai in grado di scrivere qualcosa di interessante? O sarà un testo noioso e di basso livello letterario?
Dubbi su dubbi, mentre tenti di andare avanti. Poi, un giorno, finisci il tuo testo e lo consegni ad un paio di lettori di prova. Supponiamo, ora, che lo trovino bello e ti aiutino ad eliminare un po’ di refusi. Inoltre, poniamo anche che ti diano qualche indicazione utile, circa qualche aspetto della trama o dei personaggi che a te non era venuto in mente. Bene, diciamo che, a questo punto, riesci a completare una prima stesura del testo.

Il mio primo romanzo, pubblicato nel 2018

E ora, che fare? Addentrarsi nella via impervia di trovare un editore? Sembra come il tentativo di scalare una montagna, ma senza attrezzatura e senza allenamento. Autopubblicare? Ma sarà poi una scelta sensata?
Con mille incertezze, cominci con l’invio del manoscritto a una sfilza di editori, anche piccoli, e magari sconosciuti, perché il tuo sogno è quello di vedere il testo trasformato in un libro vero, col tuo nome sopra. Passano i mesi e, come da prassi, nessuno risponde. Oppure rispondono un paio di tizi piuttosto improbabili, i quali vogliono sottoporti un contratto capestro, tagliare 110 pagine su 300 del romanzo e importi una copertina rosa e marrone orrenda. A malincuore, perché tu hai sempre il sogno della pubblicazione con un editore serio, rifiuti la proposta, chiedendoti se mai qualcun altro ti contatterà.

Il mio secondo libro, pubblicato l’anno scorso

Arriva, poi, il giorno in cui, dopo non sai più neanche quanto tempo, magari un anno o giù di lì, compare nella tua casella email il messaggio di un editore piccolo, il quale si mostra interessato al testo. Prendi un appuntamento telefonico e, sebbene ci siano una serie di aspetti da chiarire meglio, capisci di avere finalmente davanti una persona seria, che ha apprezzato quanto hai scritto e non ha la priorità di fregarti.
Dopo una serie di confronti, si trova il compromesso che, più o meno, si adatta alle esigenze dell’editore e alle tue. Qualche tempo dopo, si comincia a lavorare sulla preparazione del libro. Editing, impaginazione, revisione delle bozze, copertina e via dicendo. È un bel lavoro, quando si ha a che fare con un editore serio. A me, sebbene non sia stato solo merito mio ma la fortuna abbia giocato un ruolo molto rilevante, è capitato di trovarlo.
Infine, si arriva all’agognata pubblicazione e ti ritrovi tra le mani il tuo libro, vero e con il tuo nome stampato sopra, che tutti finalmente possono leggere. Il percorso del libro, però, non finisce certo qui. Iniziano, a questo punto, tutte le incertezze del “dopo”. Sarà un testo apprezzato? Avrà un minimo di diffusione? E poi bisogna fare qualche presentazione, e quindi: dove andare, da chi farsi affiancare mentre si parla? Senza contare, poi, grossi dubbi del tipo: sarai in grado di presentarlo bene, il libro? Verrà qualcuno all’incontro? Le presentazioni non sono esattamente affollate, se non si è famosi. E io non sto parlando di autori molto noti, col grande marchio editoriale dietro. No, io parlo di chi si fa il culo e scrive per l’editore piccolo, il quale non ha i mezzi per darti più di tanto supporto e, quindi, tutto si trasforma in un fai da te, nell’oscurità.
Magari la presentazione riesce anche bene, ma il libro, in generale, quante copie sta vendendo? Per saperlo bisognerà aspettare almeno un anno e mezzo, forse di più. Per vedere i diritti d’autore (spiccioli, nel vero ed unico senso della parola) un paio d’anni, se va bene. L’autore è sempre l’ultimo ad avere notizie e ad essere pagato, sappiatelo.

Riuscire ad organizzare una presentazione, è sempre un traguardo importante

Nel frattempo tu vivi l’avventura navigando a vista. Ogni tanto qualcuno (solitamente molto pochi) ti fornisce qualche impressione di lettura e, quando si tratta di una persona che ha apprezzato e capito il valore della tua scrittura, indubbiamente ti si scalda il cuore. Certo, vorresti sapere anche se, almeno mediamente, gli ignoti che hanno comprato il libro l’hanno letto fino alla fine oppure l’hanno gettato nel cestino, ma chi lo sa? Se non sei famoso, vivi nell’ombra ed è difficilissimo diffondere un libro di un autore non noto. Alcune persone che conosci direttamente neanche lo leggono, per dire. In Italia, poi, con l’epidemia di non-lettura diffusa in modo endemico ovunque, va ancora peggio.
Ecco, pensateci quando scorrete i titoli sugli scaffali di una libreria. Certo, anche tra i piccoli editori ci sono i ciarlatani, ma ci sono anche quelli bravi che pubblicano ottimi libri. E molti autori si fanno davvero il culo per produrre libri di qualità, pur senza avere chissà quale supporto alle spalle, solo per poi rimanere in attesa di qualche sporadico segnale di fumo da parte di qualcuno che mostri di aver compreso e apprezzato il senso di tanto sforzo letterario.
Vedere un proprio libro pubblicato da un bravo editore è una grande soddisfazione. Io ho avuto la fortuna di vedere non solo uno, ma anche un secondo mio romanzo, pubblicati. Tutto ciò mi dona molta gioia, ma ricevere qualche notizia da eventuali lettori, in quelle rarissime occasioni in cui succede, me ne regala è ancora di più.

Amok di Stefan Zweig – un viaggio nel lato oscuro dell’amore

La copertina dell’edizione del 1922 di Amok, uando fu pubblicato per la prima volta

Il termine amok, originariamente riferito a persone di origine malese, indica, in diverse lingue, una sorta di raptus a metà tra la follia omicida e il delirio. Stefan Zweig, uno dei miei autori preferiti, ormai lo si sarà intuito, dedica all’amok un’intera storia. Non è molto lunga, a dire il vero, tanto che nell’edizione italiana conta meno di 100 pagine, ma la sua intensità è notevole.

Lo spunto da cui parte la vicenda, di per sé, è piuttosto semplice ma i punti di interesse del libro non stanno solo nell’intreccio, come si vedrà nelle prossime righe. Ma veniamo agli eventi narrati nel libro.

La voce narrante del racconto sta facendo un viaggio in nave e, mentre prende una boccata d’aria sul ponte, incontra casualmente uno dei passeggeri, il quale inizia a conversare con lui. L’uomo sembra avvolto in una sorta di aura oscura e poco chiara ma pare, allo stesso tempo, avere un disperato bisogno di confidare a qualcuno, anche a uno sconosciuto, i propri gravi turbamenti. Si entra, così, nel racconto fatto dal misterioso passeggero. Un racconto sempre più cupo. L’uomo, un medico, riferisce di aver praticato la professione in una remota località nelle Indie, dove si svolgono i fatti che si accinge a riferire.

Il medico incontra una donna, la quale gli offre una notevole somma affinché lui le pratichi un’interruzione di gravidanza. L’uomo, rimasto subito colpito dall’arroganza irriducibile della donna, avverte all’improvviso una bruciante ed irresistibile attrazione amorosa per lei, e perde la testa in un crescendo di folle bramosia autodistruttiva. È l’uomo stesso a paragonare la sua passione sfrenata per questa donna sconosciuta all’amok, una follia omicida che colpisce i malesi e che sembra costringerli a correre, impazziti, per ogni dove, uccidendo chiunque gli si pari davanti.

Stefa Zweig qualche anno prima della Grande Guerra

Il libro di Zweig descrive la caduta nell’abisso del delirio mentale da parte del medico, il quale, pur rendendosi conto (in alcuni momenti) del suo stato di folle alterazione, non è in grado di opporsi al desiderio di soddisfare il suo bruciante desiderio nei confronti dell’altera figura femminile incontrata per caso nel suo ambulatorio. Avendo scritto io stesso una storia in cui ho messo in scena proprio un delirio d’amore di stampo ossessivo, non potevo non trovare interessante un racconto con argomenti per certi versi simili, ad opera di un grande scrittore.

Il principale punto d’interesse di Amok, infatti, risiede nel lato psicologico della storia, cioè nel modo in cui lo scrittore austriaco si addentra nei meandri di una mente alterata da un’ossessione d’amore, sconfinante nel vero e proprio delirio. Risulta magistrale la capacità di Zweig di descrivere uno stato mentale così irrimediabilmente alterato e così sinistramente votato alla tragedia. Appare chiaro fin da subito, infatti, che la vicenda del medico vittima dell’amok non potrà concludersi senza alcun danno. Zweig, in questo modo, centra sicuramente uno dei punti chiave, quando si parla di pensieri ossessivi: gli strascichi e i veri e propri danni prodotti da queste situazioni sono inevitabili, soprattutto per la persona stessa che li sperimenta. Non è affatto detto che simili circostanze debbano necessariamente sfociare in una follia omicida, come indica il significato classico del termine amok. In questa storia, ad esempio, così come nel mio romanzo, non ci sono esiti di tale genere, ma non per questo il danno risulta minore. Il nocciolo della questione, infatti, è l’impossibilità, in certi casi, di sottrarsi alla forza dell’ossessione, che finisce col risucchiare e travolgere qualsiasi cosa, finché non resta spazio per nient’altro e lo spettro dell’autodistruzione inizia a farsi avanti, in maniera sempre più tangibile.

Amok è una novella che si legge in meno di un’ora, ma risulterà certamente interessante per chi vuole addentrarsi in un mondo dove l’amore e il romanticismo prendono una piega sinistra e imprevedibile. Chi è interessato a calarsi nei meandri meno frequentati del pensiero umano e nel lato oscuro dell’amore, può indubbiamente apprezzare questo testo. Stefan Zweig, inoltre, è davvero una garanzia quanto a grande scrittura, eleganza, chiarezza di espressione e fluidità. Di qualsiasi cosa lo scrittore austriaco si occupi, la sua prosa risulta sempre gradevole e coinvolgente.

Una copia di Amok parzialmente bruciata durante uno dei roghi di libri durante il Terzo Reich

Un altro motivo per leggere Amok è che, sebbene sia stato proibito e messo al rogo dai nazisti, il testo è giunto integro fino a noi che, si spera, possiamo raddrizzare il torto da loro messo in atto e apprezzarne, così, la grandezza letteraria. Si tratta di un investimento da poco, tra l’altro: meno di un’ora di tempo per una perla letteraria. Perché non provare a leggerlo, dunque?

KL – storia dei campi di concentramento nazisti di Nikolaus Wachsmann, un libro che tutti dovrebbero leggere

Sebbene la saggistica storica rappresenti un genere poco frequentato da buona parte dei lettori, essa non andrebbe disdegnata per almeno due ragioni. La prima è che per suo tramite è possibile conoscere molti aspetti sconosciuti del passato e la seconda è che al suo interno si nascondono, a volte, delle perle.

Copertina dell’edizione italiana

È il caso del libro di cui parlo oggi, KL – Storia dei campi di concentramento nazisti di Nikolaus Wachsmann. Questo è un libro che tutti dovrebbero leggere, se non altro per un dovere storico legato alla memoria di eventi tanto tragici.

Prima di fornire una breve panoramica sul libro, credo sia utile fare una premessa. Generalmente, molte persone conoscono i campi di concentramento nazisti solamente per sentito dire, oppure per aver letto qualche testo di memorialistica sull’Olocausto come, ad esempio, il celeberrimo Se questo è un uomo di Primo Levi.

Fermo restando che la memorialistica sull’Olocausto, e Levi in particolare (del quale io sono un ammiratore incondizionato), sono fondamentali è necessario essere chiari: per chi vuole conoscere a fondo la Germania nazista e in che modo un’ideologia simile abbia potuto affermarsi, tramite Hitler, in modo tanto nefasto, non ci si può limitare a queste pur indispensabili letture. È necessario andare più in là, non solo ampliando il raggio dei libri scelti, ma anche facendo uno sforzo mentale per penetrare la mentalità dell’epoca, in questo caso quella nazista.

Un libro come quello di Nikolaus Wachsmann va proprio in questa direzione. Sarebbe il caso di leggerlo evitando di essere del tutto a digiuno, per quanto riguarda la storia europea e tedesca del XX secolo ma questa resta in ogni caso una lettura consigliata a tutti.

Tre degli uomini più importanti nell’ambito della creazione e gestione dei campi: a sinistra Reinhard Heydrich, a destra Heinrich Himmler e, ancora più a destra, Hitler

Venendo, ora, più direttamente al libro (che indicherò per brevità con la sigla KL del titolo) si tratta di uno studio monumentale sulla storia dei campi nazisti. Come l’autore chiarisce in vari punti del testo, le sua priorità sono il rispetto della complessità della storia, che non si lascia ridurre a semplici formule, e la composizione di un quadro articolato della storia dei campi. È così che Wachsmann fa parlare non soltanto le alte gerarchie del partito nazista, come Himmler, Hitler o Heydrich, ma anche le SS impiegate nei campi e, ovviamente, i prigionieri stessi. In questo modo, emerge un affresco decisamente complesso della situazione, nel quale dichiarazioni e documenti ufficiali si intervallano alle direttive e ai pensieri dei responsabili dei campi e delle semplici guardie, senza mai dimenticare chi viveva l’orrore dei campi sulla sua pelle, i detenuti.

Si vengono, così, a scoprire elementi sconosciuti dell’oscura storia dei campi. Wachsmann, infatti, parte dall’inizio quando, nel 1933, nascono con un certo disordine i primi campi destinati agli oppositori politici, tra i quali specialmente gli iscritti ed attivisti del partito comunista, gli operai orientati politicamente a sinistra, ma anche gli esponenti di più o meno alto rango della SPD, il partito socialista tedesco, che all’epoca rappresentava la parte moderata della sinistra. Lo studio che si dipana sotto i nostri occhi in KL affronta tutte le fasi del dispiegamento del terrore nazista attraverso i campi. Vengono descritte ampiamente sia la pratica della detenzione preventiva a tempo indeterminato (e quindi al di fuori della legge) di chiunque risulti non conforme sia, infine, attraverso un percorso ondivago e contraddittorio, la definitiva affermazione su larga scala della realtà dei campi. Si viene, così, a scoprire, ad esempio, che verso la metà degli anni Trenta c’è stata una fase durante la quale i campi sembravano essere sul punto di scomparire, mentre erano messe in atto grandi procedure di rilascio in massa dei prigionieri detenuti al loro interno.

Com’è ovvio, il libro si occupa anche dei nomi più famosi legati al mondo dei campi, come Dachau oppure Auschwitz-Birkenau e Auschwitz-Monowitz, ma analizza a fondo anche alcune realtà di cui quasi nessuno conosce l’esistenza. È questo, ad esempio, il caso di Dora. Dora è stato un grande campo nazista che ha inaugurato la pratica, durante la guerra, della detenzione non più all’aria aperta, per così dire, ma in profonde caverne o tunnel nel sottosuolo, per sfruttare i prigionieri al fine della produzione di armi e macchinari bellici per l’esercito. Inutile dire che Dora (insieme ai suoi campi satellite) rappresenta una delle realtà più letali nell’ambito del mondo concentrazionario nazista e, al contempo, una delle quali Himmler e gli altri dirigenti dell’NSDAP andavano più fieri.

Lo studio di Wachsmann si snoda per quasi 700 pagine, senza lesinare dettagli né sulla percezione dei campi da parte dei prigionieri, né su quella delle SS né, infine, su quella dei tedeschi comuni. Viene affrontata nel dettaglio anche la lotta senza quartiere contro i poveri e i vagabondi, ingaggiata dalle autorità del Terzo Reich negli anni Trenta. Non viene tralasciata, infine, nemmeno l’analisi della situazione nel dopoguerra, quando gli ex internati si trovano di fronte a grandissime delusioni sul fronte del perseguimento legale dei criminali nazisti.

È fondamentalmente impossibile riassumere l’enorme molteplicità di aspetti dei quali KL si occupa, ma l’invito a leggere il libro è davvero la cosa migliore che si possa praticare. Leggetelo, per un dovere di memoria storica su una della fasi più buie della nostra storia e anche per smentire alcuni luoghi comuni sui campi nazisti.

Infine, una brevissima nota a margine, sebbene non sia presa in considerazione nello studio di Wachsmann. Mi occuperò della questione in un altro momento, ma non vorrei si dimenticasse la complicità italiana di stampo fascista nelle politiche hitleriane. Gli italiani hanno adottato prassi e politiche del tutto analoghe a quelle naziste e altrettanto genocidarie, che non vanno dimenticate. Quello del bravo italiano è soltanto un mito, ma di questo, come dicevo, parlerò un’altra volta.

Uno scrittore troppo a lungo dimenticato – Edlef Köppen e il suo Bollettino di guerra

Dopo Stefan Zweig e Hans Herbert Grimm, ecco un altro scrittore vittima della crociata hitleriana contro i libri e la cultura.

Il nome di Edlef Köppen è perlopiù sconosciuto, oggi, perfino in Germania. Tutto merito di Hitler, come troppo spesso accade. La fama di Köppen, almeno quella relativa che si è diffusa molti anni dopo la sua morte, è legata al libro Bollettino di guerra, pubblicato per la prima volta nel 1929.

Edlef Köppen nel 1914

In questo libro Köppen ripercorre la sua esperienza di soldato durante la Grande Guerra, attraverso le vicende dell’artigliere Adolf Riesiger. A Rieseger, infatti, accadono esattamente le stesse cose accadute a Köppen tra il 1914 e il 1918. Le uniche variazioni inserite dallo scrittore tedesco riguardano (oltre al nome del protagonista) le denominazioni dei reggimenti e delle unità dell’esercito coinvolte negli eventi e, logica conseguenza, i nomi dei soldati incontrati da Riesiger nel corso della storia. Il racconto, quindi, non rappresenta altro se non le memorie di guerra di Köppen, con i nomi modificati.

Il testo inizia nell’agosto del 1914, in corrispondenza con lo scoppio della guerra e vede alternarsi continuamente il racconto della vita di Adolf Riesiger ad alcuni testi, autentici, delle dichiarazioni ufficiali dei politici, militari, giornalisti tedeschi e perfino testi delle inserzioni pubblicitarie leggibili sui giornali dell’epoca. Ne scaturisce un contrasto stridente tra la realtà dei soldati in prima linea e il mondo esterno, che sembra quasi sconfinare in una sorta di bolla surrealista. Si tratta di un vero capolavoro sconosciuto della letteratura di guerra, e non solo.

La copertina dell’edizione italiana del libro di Köppen

Riassumendo, Riesiger/Köppen si arruola all’indomani della dichiarazione di guerra e viene prontamente spedito in Francia come soldato semplice. Giunge in prima linea e inizia il suo apprendistato come combattente, partecipando direttamente (e contemporaneamente subendoli) a tutti gli orrori della guerra di trincea. Riesiger/Köppen farà, dapprima, il telefonista e poi l’artigliere, partecipando ad episodi bellici sempre più violenti, sempre più assurdi e sempre più concitati, fino ad arrivare ad una sorta di surreale battaglia fantasma contro un bosco vuoto, alla fine dell’estate del 1918. Riesiger/Köppen, costantemente accompagnato dalle dichiarazioni del Kaiser, di Hindenburg e Ludendorff e tanti altri che gli fanno da controcanto, passa tre anni sul fronte occidentale, per essere poi trasferito nell’autunno del 1917 su quello orientale, proprio in concomitanza con i colloqui di pace con i russi e la firma del trattato di Brest-Litovsk. Dopo alcuni mesi sul confine russo, quindi, Riesiger/Köppen viene nuovamente spedito in Francia per le offensive di primavera del 1918, momento in cui, per lui, riprende l’apocalisse della prima linea. Riprende, sì, ma in modo ancora più allucinato di prima. Nel mezzo di queste esperienze, Riesiger/Köppen viene perfino messo sotto inchiesta e interrogato dai suoi capi per sospetto pacifismo, in quanto si è scoperto aver inviato una innocua poesiola ad una rivista per soldati, nella quale si augura che la pace fiorisca presto nel mondo. L’artigliere supera in qualche modo l’indagine uscendone pulito ma, sul finire dell’estate del 1918, nel delirio della ritirata tedesca incalzata da inglesi, francesi e americani, il rifiuto della guerra che va elaborando ormai da diverso tempo, esplode senza rimedio. All’ennesimo ordine di attaccare i nemici (ordine da lui stesso reputato inutile poiché, ormai, tutti hanno notato come l’esercito tedesco si stia inesorabilmente ritirando), egli decide di rifiutarsi di obbedire. Così, dopo quattro anni di guerra, numerose ferite e più di una decorazione al valore militare, Riesiger/Köppen comunica al suo superiore la ferma volontà di non eseguire più ordini che comportino la messa a rischio della vita degli uomini che deve comandare. Sì, perché nel frattempo Riesiger/Köppen è stato promosso sul campo per meriti di guerra ed è diventato sottotenente. L’artigliere viene prontamente denunciato e, come punizione per la sua viltà, viene immediatamente trasferito nel manicomio di Magonza, dove resta fino all’armistizio. Il libro si chiude nell’autunno del 1918, quando ancora la pace non è arrivata, con gli infermieri dell’ospedale psichiatrico che, tentando di domandare a Riesiger/Köppen se finalmente vuole qualcosa da mangiare, si sentono rispondere: ‘Andate affanculo! La guerra non è ancora finita!’

È il grido di rifiuto definitivo della guerra, il cui senso è ‘Voi siete rappresentanti dell’autorità costituita e io non vi obbedirò più finché non sarà finita la guerra.’

Bollettino di guerra finisce qui, ma la vicenda di Köppen andò avanti. Rinchiuso nel manicomio di Magonza, trarrà poi beneficio dal caos scaturito in seguito alla nascita della Repubblica di Weimar. Fu grazie a questa situazione fuori controllo, infatti, se lo scrittore tedesco non fu processato davanti alla corte marziale, per il rifiuto di obbedire agli ordini di pochi mesi prima. Rischiava la revoca delle onorificenze militari e la condanna a morte. Fortunatamente non incappò in nessuna delle due. Uscito dall’ospedale psichiatrico, Köppen lavorò a lungo in radio e poi per il cinema. Nel 1929 pubblicò Bollettino di guerra, omettendo, come abbiamo visto, di far comparire il suo nome e le vere denominazioni dei reggimenti e battaglioni protagonisti delle azioni di guerra raccontate nel testo. Sperava, in questo modo, di evitare guai con il nuovo potere nazista che ormai, nel 1929, era arrivato ad occupare quasi tutta la scena tedesca. Köppen sperò invano. Qualche anno più tardi, i nazisti cominciarono a perseguitarlo. Il suo libro fu messo al bando e ne furono vietati la vendita e il possesso. Non contenti di tutto ciò, i nazisti gli fecero anche perdere il lavoro presso la casa di produzione cinematografica, che Köppen svolgeva da molti anni con unanime apprezzamento di tutti. Lo scrittore tedesco morì nel 1939, sostenuto soltanto da pochi familiari, per le complicazioni delle ferite ricevute durante la Grande Guerra in Francia. Il suo libro fu ripubblicato solo tanti anni dopo la fine della seconda guerra mondiale.

 Facciamo, a questo punto, un passo indietro e tentiamo di fare uno sforzo di immedesimazione. Questo sforzo per immergerci in una realtà per noi quasi inimmaginabile può aiutare a capire da che parte stare ancora oggi, senza risultare un vacuo esercizio retorico.

1939, dunque: l’anno dell’invasione della Polonia da parte della Germania nazista. Questo sarà il punto di non ritorno per il mondo intero, sebbene siano ormai diversi anni che in Germania ogni diritto viene costantemente infranto. Da questo momento, però, la guerra dilagherà ovunque, fino ad arrivare in Russia, dove i nazisti incontreranno, quasi per la prima volta dallo scoppio del conflitto, la catastrofe. Köppen, però, giungerà a vedere soltanto la fase iniziale di tutto questo.

Nel corso degli anni Trenta, lo scrittore tedesco, colpito dalla messa al bando del suo libro Bollettino di guerra, incentrato sulla sua esperienza di reduce pluridecorato durante la Grande Guerra, perde anche il lavoro. Da questo momento le tracce da lui lasciate si fanno nebulose. È come se la volontà nazista di cancellarlo dalla scena avesse trovato un terreno perfetto per diffondersi. Nessuno parlerà più di Edlef Köppen fino almeno agli anni Sessanta. Il suo eccezionale libro memoriale non sarà più pubblicato fino allo stesso periodo. Il reduce della Grande Guerra, dopo essere sopravvissuto a quattro anni infernali da soldato, scompare letteralmente dai radar. Va detto, per inciso, che i reduci tedeschi ad andare incontro ad un tragico destino durante il Terzo Reich saranno parecchi, primi fra tutti i soldati ebrei della Grande Guerra.

Ma torniamo a Köppen. Soltanto pochi familiari lo aiutano a gestire una situazione ormai divenuta difficilissima, complici i problemi di salute derivanti dalle ferite rimediate durante la guerra del ’14 – ‘18. La salute di Köppen non si è mai ripresa del tutto e, soprattutto dalla metà degli anni Trenta, peggiora ulteriormente. Lo scrittore tedesco sta sempre più male, finché le sue condizioni appaiono critiche. Nel 1939, ormai, sta quasi sempre in casa, attorniato da pochi familiari decisi ad aiutarlo fino alla fine. Morirà in solitudine, dunque, a causa di ferite provocate da una guerra in cui ha indossato l’uniforme dell’esercito tedesco. Certo, si trattava dell’esercito del Kaiser e non di quello di Hitler, ma l’amarezza di Köppen deve aver raggiunto livelli difficilmente gestibili per chiunque. Noi non possiamo neanche immaginare cosa tutto ciò abbia potuto significare, ma dopo quattro anni di guerra e la permanenza per circa tre mesi in ospedale psichiatrico, Köppen è stato costretto ad assistere all’affermazione del potere nazista che, oltre a tutte le altre nefandezze di cui si è reso colpevole, ha messo al bando il suo libro, gli ha fatto perdere il lavoro e l’ha cancellato dalla memoria di un’intera nazione. Per sua fortuna, lui non lo vedrà, ma la rimozione forzata dalla coscienza nazionale perdura ancora oggi, nonostante il suo Bollettino di guerra sia stato pubblicato molte volte e tradotto in mezzo mondo. Il suo nome è ancora sconosciuto anche per tanti conoscitori della storia della Grande Guerra.

Inoltre, Köppen si ammala in modo irreversibile e trova la morte proprio nel 1939, un momento storico nel quale il nazismo, pur non essendo ancora padrone di tutta l’Europa, ha già iniziato a mettere a segno colpi incredibili sotto gli occhi di tutti. I Sudeti prima e la Cecoslovacchia poi, ad esempio, sono territori caduti nelle mani dei nazisti quasi senza colpo ferire. Ad essi va aggiunta anche l’Austria, annessa nel 1938 con grandi squilli di tromba. Ed ora tocca alla Polonia, anche se in questo caso le cose non risulteranno tanto semplici e le conseguenze saranno imprevedibili.

Lo scrittore di Bollettino di guerra, dunque, vede, durante la malattia, il nazismo arrembante trionfare ripetutamente. Dove potranno giungere Hitler e il branco di invasati raccolti attorno a lui, nel prossimo futuro? Tra l’altro, diversi dei grandi capi nazisti sono reduci della Grande Guerra, proprio come Köppen sebbene, inutile sottolinearlo, non posseggano né la sua caratura umana, né quella culturale. Che dire, ad esempio, di Herman Göring, il braccio destro di Hitler? O di Erwin Rommel, sul quale si è costruito un mito scollegato dalla realtà del personaggio? D’altronde, perfino Hitler aveva combattuto sul medesimo fronte occidentale conosciuto dallo scrittore tedesco. Hitler, però, pur essendo stato a sua volta decorato, non era mai andato oltre il grado di caporale.

Questo, dunque, è il mondo visto da Köppen dalla finestra di casa sua mentre giaceva a letto, o su una poltrona, vittima di ferite inflittegli durante un conflitto sperimentato anche da molti dirigenti e membri dell’apparato nazista, capaci soltanto di distorcerne la storia a proprio uso e consumo.

Edlef Köppen dopo la Grande Guerra

Ovviamente noi oggi non possiamo avere la capacità di immaginare realmente cosa deve aver provato Köppen, malato, nel constatare l’inutilità di quanto aveva sperimentato durante la Grande Guerra. Non possiamo immaginare il dolore che deve aver provato nel vedere il suo libro bruciato, proibito ed infine dimenticato. L’amarezza nel rendersi conto di dover morire nel mondo nazista del 1939 a causa di ferite provocate da un conflitto che, ben vent’anni prima, aveva prodotto il mostro ideologico governato da Hitler, deve essere stata enorme.

Mi piace ricordare, dunque, il grande scrittore tedesco con le parole finali del suo Bollettino di guerra. Mi sembrano perfette per descrivere la tempra di Edlef Köppen e restituirgli un po’ di quel rispetto che per troppo tempo gli è stato negato. Per lui, ormai, è troppo tardi. Per noi, forse, ancora no:

Ospedale militare della fortezza di Magonza

Reparto neurologia

Bollettino settimanale 6 – 13.9.1918

Reisiger, Adolf, sottotenente della riserva, 253º reggimento artiglieria da campagna. Reperto come nelle settimane precedenti. Il malato non dorme, non mangia, guarda dritto davanti a sé. Quando gli si rivolge la parola, in risposta ha sempre un’unica frase: “Siamo ancora in guerra. Andate affanculo!”

Hans Herbert Grimm e il soldato Schlump, un’altra vittima dei roghi nazisti di libri

Ho parlato in un altro articolo di Stefan Zweig e di come sia diventato uno degli autori proibiti dai nazisti, una volta giunti al potere. Un altro scrittore tedesco che subì il medesimo destino ed ebbe, a sua volta, una sorte drammatica, è Hans Herbert Grimm, un autore quasi sconosciuto al giorno d’oggi.

Di questo scrittore tedesco non ci sono notizie molto dettagliate per colpa, tant per cambiare, della furia nazista contro la cultura in genere.. Vorrei spendere ugualmente due parole per quest’uomo dimenticato dalla storia e dalla letteratura.

Hans Herbert Grimm

Nel 1928 Grimm pubblica un romanzo intitolato Il soldato Schlump. Schlump, il protagonista del libro, è un ragazzo poco più che adolescente, il quale allo scoppio della guerra, nel 1914, si arruola insieme ad alcuni amici nell’esercito tedesco. Si ritrova, così, con l’uniforme da soldato e il fucile in mano, a viaggiare su un convoglio ferroviario diretto verso il fronte occidentale. Schlump è, fondamentalmente, un incosciente che non ha la minima idea di quanto sta facendo. Per fare un paragone comprensibile a noi uomini moderni, possiamo affermare che Schlump è una sorta di Forrest Gump della Grande Guerra. Inconsapevole, piuttosto assente, a volte un po’ rimbambito, attraversa prove incredibili, sopravvivendo sempre, laddove gli altri periscono e soffrono. Passa indenne attraverso la guerra, dunque, nonostante le sue brutture e fa ritorno in Germania, partecipando al caos totale del rientro in patria in un’atmosfera surreale che sembra quasi tendere al racconto fantastico. Si ritroverà, infine, a giungere nella Germania dei mesi immediatamente successivi all’armistizio, una nazione dove ogni cosa appare sovvertita e caotica; dove pare un miracolo che qualcosa continui ancora a seguire le normali leggi della logica e della fisica. A lui, però, non sembra importare granché, grazie alla sua stralunata indole. L’importante è, per Schlump, essere sopravvissuto e aver fatto ritorno al suo paese.

Grimm era un pacifista e il suo libro lo dimostra ampiamente. Fu per questa ragione che decise, quando trovò un editore nel 1928, di usare uno pseudonimo. In quegli anni, infatti, i nazisti si stavano avviando a grandi passi a prendere il potere in tutta la Germania e l’autore del soldato Schlump non si sentiva al sicuro. Il libro, per la verità, fu pubblicato senza problemi ma nel 1933 fu inserito nella lista dei testi proibiti e bruciato insieme a quelli di tanti altri, come Stefan Zweig e Edlef Köppen (del quale parlerò prossimamente).

Grimm non rivelò mai a nessuno di essere l’autore del soldato Schlump né prima, né dopo il rogo nazista dei libri. Il motivo è semplice: lui era un pacifista, per giunta antinazista, ma non era un cuor di leone. Come tanti, era una persona normale. Desiderava soltanto scrivere e dedicarsi all’insegnamento, mestiere che svolgeva alle scuole superiori. Non ardeva di coraggio, e non lo dico in senso denigratorio. D’altronde, è difficile avere coraggio in un mondo popolato di nazisti, nel quale le notizie sull’incarcerazione e la persecuzione degli oppositori politici si rincorrono di continuo. Grimm, a differenza di altri, come Zweig, non emigrò nemmeno quando Hindenburg nominò Hitler cancelliere. Non lo fece neanche più tardi quando, ormai, il potere nazista aveva assunto il colore del sangue. Anche qui la motivazione è semplice: Grimm non ebbe il coraggio di abbandonare la sua abitazione, il piccolo paese nel quale risiedeva e il suo lavoro. Ragioni perfettamente umane e condivisibili, a ben guardare.

Per non incorrere in scocciature e non rischiare di essere considerato un oppositore politico, Grimm si iscrisse al  partito nazionalsocialista di Hitler. Ancora una volta il motivo è profondamente umano: sperava, tramite l’iscrizione, di essere lasciato in pace. Forse, come molti ritenevano possibile, la tempesta sarebbe passata prima del previsto. Purtroppo, invece, la tempesta non passò. Venne il periodo delle annessioni e della politica in salsa militare del “fatto compiuto”, secondo la teoria del Blitzkrieg di Hitler e, infine, giunse anche la guerra.

Grimm restò sempre in Germania, continuando ad insegnare e seguitò a tenere segreta la propria identità di autore del romanzo proibito (e ormai dimenticato) Il soldato Schlump. Nel 1945 la guerra finì e giunse il tempo della pace, anche se questo è soltanto un modo comodo di raccontare le cose in modo da nascondere molti punti oscuri del dopoguerra. Dopo la Seconda Guerra mondiale, infatti, iniziò un nuovo conflitto che era in preparazione già da qualche anno: la cosiddetta Guerra Fredda. Mentre i campi di sterminio nazisti erano liberati da sovietici e americani (ma non tutte le categorie di prigionieri furono liberate subito e non tutte ebbero diritto ai risarcimenti e ad essere ricordate come vittime del terrore nazista), i vincitori stabilivano quale dovesse essere la sorte della Germania sconfitta. Non diversamente da quanto avvenuto nel 1919, presero delle decisioni nefaste, giusto in tempo per confermare come dalla storia non si impari mai nulla.

La Germania, dunque, fu suddivisa in due parti. Ciascuna delle due faceva capo ad un’area di influenza diversa ed era indipendente dall’altra. La Germania Ovest era afferente al blocco occidentale dei vincitori della guerra, mentre la Germania Est faceva capo al blocco sovietico, poiché l’Armata Rossa era stata l’altra grande vincitrice del conflitto da poco cncluso.

Grimm si ritrovò a risiedere nella Germania Est comunista (per quanto del comunismo del 1917 possedesse ben poco). Finita la guerra, Grimm riprese ad insegnare e a condurre la sua vita ordinaria, continuando ad abitare nella stessa casa di una volta, insieme alla moglie. I problemi, però, non erano finiti per lui. Nessuno scoprì mai come l’autore del soldato Schlump fosse lui, a tal punto aveva custodito gelosamente questo segreto. Qualcuno, però, venne a sapere della sua iscrizione al partito nazista. Ovviamente tutto ciò fu ritenuto inaccettabile nel dopoguerra e nella Germania Est sotto protettorato sovietico. Intervennero dunque la Stasi e alcuni rappresentanti del partito comunista. Grimm perse il lavoro di insegnante, che era una delle sue ragioni di vita, per cui aveva sopportato l’orrore nazista senza professare né il suo pacifismo, né di essere uno scrittore. A nulla valsero le testimonianze delle sue studentesse, le quali dissero sotto giuramento che Grimm era antinazista. Nemmeno il racconto di come lui, durante la guerra, avesse fatto leggere loro le opere di autori proibiti servì a niente. Secondo le autorità della Germania Est, Grimm risultava essere stato iscritto al partito nazista, pertanto non poteva seguitare a fare l’insegnante.

Per l’autore del soldato Schlump si spalancarono le porte dell’amarezza e della disperazione. Fu divorato dal senso di colpa e dall’angoscia di non poter più fare l’insegnante.

La copertina dell’edizione italiana del romanzo, con il vero nome dell’autore finalmente presente

Una mattina del 1950, sua moglie uscì di casa per fare la spesa. Quando rincasò, trovò ad attenderla il cadavere del marito, suicidatosi mentre lei era fuori. Non aveva retto al senso di colpa per essersi iscritto al partito nazista e alla depressione, seguita al licenziamento dalla scuola in cui insegnava. Nessuno ricordò più Hans Herbert Grimm.

Bisognerà attendere il 2008 perché, del tutto casualmente, qualcuno ritrovi il manoscritto originale de Il soldato Schlump e tutti vengano a sapere chi ne è il vero autore. Finalmente, con imperdonabile ritardo, il nome di Hans Herbert Grimm potrà comparire sulla copertina del suo romanzo del 1928.

Stefan Zweig e il mondo di ieri, per far luce su quello di oggi

Voglio parlare, oggi, di uno degli scrittori che hanno avuto grande importanza nella scrittura dei miei libri. Stefan Zweig, uno tra i più grandi scrittori austriaci del Novecento, visse la sua parabola vedendo gli effetti di due guerre mondiali, pur senza combattere in nessuna delle due. Scrisse molti testi notevoli, tra i quali citerò solamente, a titolo di esempio, Il mondo di ieri, La novella degli scacchi, Il mondo senza sonno e Amok.

Il fondamentale testo autobiografico dello scrittore austriaco

La vita di Zweig trascorse partendo dallo sfavillante Impero austro-ungarico a cavallo tra Ottocento e Novecento per poi attraversare il cataclisma della Grande Guerra, i turbolenti anni della Germania di Weimar e della neonata Repubblica d’Austria ed, infine, approdare al periodo oscuro del Terzo Reich. Vediamo, quindi, sebbene un po’ sommariamente, la storia di Zweig, che riassume, per molti versi, quella dell’Europa dalla fine del XIX e la prima parte del XX secolo.

Lo scrittore austriaco nasce e cresce nella Vienna del massimo splendore dell’Impero austro-ungarico, tra gli ultimi anni dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Zweig vede con i propri occhi, durante la giovinezza, i fasti della cultura imperiale al suo massimo sviluppo, quando a Vienna le sale da concerto vedono esibirsi le migliori orchestre, le sale da teatro i migliori attori e riviste ed editori abbondano. Egli fa parte di una famiglia di origine ebraica benestante, di conseguenza può permettersi ottime scuole, buone letture e di andare anche a teatro. La passione con la quale descrive questo periodo della sua vita, nel fondamentale Il mondo di ieri, è enorme. In questo testo autobiografico Zweig compone un inno ai libri, al teatro e in generale alla cultura del periodo immediatamente precedente la Grande Guerra, proprio quella fase in cui, agli occhi di molte persone, il progresso e la pace paiono inarrestabili, in Europa, e si può girare il mondo senza documenti, come lui stesso farà visitando l’India e gli Stati Uniti. Un mondo, quindi, ricco di aspettative, ma destinato inesorabilmente all’implosione con l’arrivo del 1914. Anche in questo caso, lo scrittore austriaco descrive con maestria l’atmosfera surreale ed allucinata nella quale inizia il conflitto, per poi trascinare a fondo con sé l’intera Europa e, di seguito, il resto del mondo. La Grande Guerra porta con sé le speranze tradite di milioni di uomini e donne, mentre le battaglie devastano ovunque tutto quanto passa sotto il loro rullo compressore, finché anche chi è rimasto a casa vede avvicinarsi lo spettro della miseria e della morte.

Stefan Zweig nel 1912

Nemmeno il mondo culturale appare risparmiato dalla guerra. Nasce, infatti, una disputa di violenza inedita tra intellettuali tedeschi e francesi, tesa ad eliminare dal mondo culturale ed universitario tutti gli intellettuali e gli scienziati facenti parte della nazione avversaria. Zweig, profondamente contrario a tutto ciò, parteciperà ad un’iniziativa per riunire in nome dell’arte proprio gli intellettuali dei due paesi e chiunque altro, con buona volontà, voglia unirsi a loro. Si tratterà di un’azione palesemente incompresa e fallimentare, come lui stesso ammetterà. Nel mondo del 1914 era necessario schierarsi. La maggioranza delle persone credeva di essere di fronte ad un conflitto tra la civiltà e la barbarie (quante guerre e situazioni sociali abbiamo visto contrapporre la civiltà alla barbarie, nella storia contemporanea, anche recente?): nessuno poteva permettersi di rimanere neutrale o addirittura di sostenere l’esistenza di pregi e qualità in entrambi gli avversi campi. Ecco perché l’iniziativa cui prende parte Zweig fallisce miseramente. In una guerra violentissima sia sotto il profilo fisico sia sotto quello culturale (ricordiamo, per inciso, come la Grande Guerra fosse imbevuta pesantemente di razzismo), le persone miranti a salvare la situazione non in nome di uno dei belligeranti, ma in nome della pace, venivano messe in un angolo.

Nel dopoguerra Zweig rientra in Austria dalla Svizzera, trovando un paese disastrato economicamente e socialmente. L’inflazione è alle stelle, molti emigrano in Germania, dove la situazione pare, a prima vista, meno nera. L’Impero austro-ungarico non esiste più, ma nessuno vuole la nuova Repubblica d’Austria creata dai vincitori della Grande Guerra. La maggior parte degli austriaci desidera una cosa sola: l’unificazione (proibita dal trattato di pace) con la Germania. In questo quadro fosco, la guerra stringe ancora come una morsa il paese. La fame e le malattie sono diffusissime, anche perché i vincitori hanno deciso di non rimuovere il blocco navale, instaurato durante la guerra, che continua ad affamare la popolazione civile austro-ungarica e tedesca, fino al 1920. Inoltre, molti prigionieri (tra cui quelli catturati sul fronte italiano) non vengono restituiti ai propri paesi per rappresaglia e per giocare la carta del ricatto nei confronti degli sconfitti: se non rigate dritto, ce la prendiamo con i vostri prigionieri. L’Italia, ad esempio, incapace di gestire tutti gli aspetti logistici della guerra, si terrà spesso fino al 1920 i prigionieri austro-ungarici, facendone morire centinaia di fame.

Il nazionalismo, dunque, trae nuova linfa dalla pace vendicativa imposta dai vincitori della guerra, mentre dopo qualche anno dalla fine delle ostilità il flusso migratorio, in parte, si inverte: molte persone emigrano dalla Germania all’Austria, poiché in quest’ultimo paese l’inflazione inizia a scendere, mentre in Germania sale sempre di più, mano a mano che il caos della Repubblica di Weimar non cessa di aumentare.

Zweig, nel frattempo, inizia a diventare uno scrittore abbastanza noto sia nel paese natale, sia in Germania e intraprende una carriera letteraria apparentemente promettente. Sì, apparentemente. Lui, come molti altri d’altronde, non ha fatto i conti col nazismo. Sono questi, infatti, dopo la metà degli anni Venti, gli anni dell’affermarsi di Hitler e del suo partito nazionalsocialista dei lavoratori. Un ossimoro, una contraddizione in termini fin dal nome, ad indicare un simulacro vuoto nel quale attirare i creduloni per poi mantenere inalterato lo status quo. Sul finire del decennio, Hitler è ormai un personaggio di fama nazionale e acquisisce sempre più potere, mentre le sue squadre armate seminano il terrore dovunque vadano, imitando in ciò le famose camicie nere di Mussolini, giunte sulla scena con anni di anticipo.

È all’inizio degli anni Trenta, dunque, in corrispondenza con l’ascesa finale di Hitler, che per Zweig e molti altri cominciano i problemi seri, mentre il vecchio presidente Hindenburg, l’eroe nazionale della Grande Guerra, scivola sempre più verso uno stato di allucinazione nel quale non distingue più la realtà dalla fantasia. Esiste anche un racconto, a questo proposito, dell’episodio in cui Hitler andò a trovarlo sul letto di morte. Mentre il nuovo uomo di potere, incurante delle più elementari norme di buona educazione, non nasconde il fastidio nel dover perdere tempo con un moribondo, Hindenburg gli parla, convinto di avere di fronte il Kaiser Guglielmo II, durante la Grande Guerra. Hindenburg perderà conoscenza subito dopo questo monologo surreale con Hitler e morirà non molte ore più tardi.

Una copia di Amok sopravvissuta ad un rogo nazista

Ma torniamo a noi. L’antisemitismo dei nazisti è sempre più violento. Zweig, in quanto di famiglia con origini ebraiche, viene bersagliato quasi subito. I suoi libri sono messi al bando e ne è proibita la vendita, la lettura e il possesso. Lo scrittore austriaco assisterà impotente, provando un immenso dolore dal quale non si riprenderà mai più, al rogo dei suoi libri, bruciati insieme a quelli di molti altri. Vedendo la situazione peggiorare con paurosa rapidità, Zweig prende una decisione che cambierà la sua vita per sempre e si risolve ad espatriare quanto più in fretta possibile. Nonostante sia, a volte, stato accusato di essere troppo buonista e magnanimo, Zweig capisce già dalla metà degli anni Trenta la volontà dei nazisti di far scomparire gli ebrei e gli oppositori politici dalla circolazione. Capisce, inoltre, che, prima o poi, Hitler e i suoi sgherri faranno chiudere le frontiere, impedendo ad un gran numero di persone di cercare una sorte migliore altrove. Certo, Zweig è austriaco e non dovrebbe sentirsi troppo coinvolto da tutto ciò, ma il nazionalismo austriaco tifa apertamente per Hitler. Non passa giorno senza che qualcuno lo invochi di annettere l’Austria. Zweig, però, non è disposto ad attendere quel momento. Con la morte nel cuore, abbandona la sua casa e dona la sua collezione di libri e oggetti d’antiquariato ad alcuni musei o a persone di fiducia, sperando ne abbiano cura. Vuole fuggire in fretta. Non vuole rischiare di rimanere bloccato in Germania o in Austria mentre sistema le sue cose.

Siamo nel 1934, l’anno successivo a quello in cui Hitler viene nominato cancelliere da Hindenburg,  e Zweig approda a Londra. Vi soggiornerà per circa quattro anni, seguendo dal territorio britannico l’inquietante evolversi della situazione nell’Europa continentale. Lo scrittore austriaco vedrà avverarsi i suoi peggiori sospetti: gli ebrei saranno dichiarati fuori legge, le frontiere saranno chiuse e, infine, l’Austria sarà annessa alla Germania, come richiesto a gran voce dalla maggioranza del popolo austriaco mentre, fin dal 1933, si rincorrerano le notizie sulla creazione di campi di concentramento per rinchiudere gli oppositori politici e, in seguito, anche gli ebrei. L’Impero e la Vienna d’inizio Novecento, che Zweig ama più di ogni cosa, saranno i primi nemici di Hitler, il quale, pur recandosi una sola volta in territorio austriaco, prima di suicidarsi nel 1945, tenterà di fare di tutto per ridurre Vienna a città di periferia senza importanza, in un furibondo tentativo di vendicarsi per le difficoltà, i fallimenti e le miserie subite nella capitale austriaca da giovane. L’unica visita alla nazione d’origine da parte di Hitler avverrà il giorno stesso dell’Anschluss, quando il Führer visiterà Braunau am Inn, sua città natale, prima di rientrare a Berlino. Nel frattempo, i nazisti tedeschi ed austriaci si abbandonano già ad ogni genere di violenza per le strade dell’ex patria asburgica.

La parabola di Zweig, però, non è ancora giunta al termine. Il dolore per quanto accade in Europa, con la questione dell’annessione dei Sudeti, della Cecoslovacchia e poi dell’invasione della Polonia nel 1939, è troppo grande per lui. Inoltre, non sa darsi pace per aver dovuto abbandonare la sua casa e i suoi amati libri, compresi molti quaderni di appunti. Prende, quindi, la risoluzione di lasciare anche l’Inghilterra per approdare in Brasile. Qui, dall’altra parte del mondo, vivrà gli ultimi anni di vita insieme alla seconda moglie Lotte. Nonostante la separazione, però, Zweig manterrà costantemente i contatti con la prima moglie Friedrike e attraverso di lei riceverà notizie sempre più sconfortanti dall’Europa.

Un uomo come Zweig, amante dei libri e della cultura e incapace di qualsiasi violenza, non poteva che sentirsi schiacciato ed oppresso, in un mondo come quello dell’Europa degli anni Trenta e dei primi Quaranta. La depressione lo divorò finché, il 23 febbraio 1942, decise di suicidarsi insieme all’amata Lotte. Tramite un’overdose di barbiturici morirono insieme, non accettando di separarsi neanche con la morte.

Stefan Zweig vedeva intorno a sé solo morte e disperazione. Sforziamoci per un momento di immaginare come dev’essere stato il mondo del 1941 o 1942. I nazisti sono padroni di mezza Europa. Possiedono Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Jugoslavia, Olanda, Belgio, Francia e spadroneggiano in alcune zone dell’Africa. Gli ebrei vengono inghiottiti a migliaia nei campi nazisti, insieme agli oppositori politici e a diverse altre categorie di persone, tra cui poveri, omosessuali e vgabondi, mentre in Italia Mussolini, nonostante appaia molto più debole di Hitler, mantiene un potere dittatoriale senza problemi. Ai roghi dei libri, ormai, si sono sostituiti i roghi delle persone. Nessuno pare in grado di contrastare la marea nera montante del fascio-nazismo. Durante la crisi dei Sudeti, ad esempio, Inghilterra e Francia hanno dato il proprio benestare ad Hitler, sperando di blandirlo, per poi trovarsi invischiate in guai ben peggiori. La Francia, d’altro canto, è invasa, stavolta definitivamente. Hitler non ha commesso gli errori del comando tedesco del 1914, il che costituisce uno dei suoi rarissimi momenti di lucidità sul piano militare. L’Inghilterra si vede costretta ad intervenire militarmente dopo l’invasione della Polonia nel 1939, temendo guai peggiori se non lo fa.

L’ultima residenza di Zweig e della seconda moglie Lotte, in Brasile

Il mondo di Zweig è un mondo nero, dove tutto brucia, dove la cultura non esiste più e i civili sono catturati, schedati e uccisi a decine di migliaia senza che nessuno muova un dito. Certo, tenta di scappare. Capisce, prima di tantissimi altri, cosa accadrà e scappa senza quasi fare le valigie, a tal punto teme per la propria vita. Ma non può fuggire dalla depressione che lo avvolge, mentre guarda il suo paese consegnarsi ad Hitler, mentre vede l’Europa sprofondare nel baratro, mentre vede la guerra dilagare dovunque. Zweig non ce la fa, non può più sopportare quello stato di cose e così decide di farla finita. L’unica via di scampo, per lui, si trova nell’autonomia di scegliere come uscire di scena. I nazisti dominano il mondo e in quel momento una loro vittoria in guerra appare tutt’altro che remota. Come uomo libero, però, possiede ancora la capacità di un’ultima scelta. E la attua. Proprio lui, il quale viene talvolta accusato di troppa bontà, si uccide insieme a Lotte. I due chiudono gli occhi su un mondo apocalittico, privo di luce. Per loro non esiste un domani. Per Stefan e Lotte il mondo è quello nazista del 1942.

Nell’ultima lettera, datata 22 febbraio 1942, il giorno prima del suicidio, ad Alfred Altmann, padre di Lotte, Zweig scrive questa frase: “Abbiamo deciso, uniti nell’amore, di non lasciarci mai.”

Accanto ai corpi senza vita di Stefan e Lotte fu trovato un biglietto d’addio nel quale si potevano leggere, tra le altre, queste parole: “Saluto tutti i miei amici! Che dopo questa lunga notte possano vedere l’alba! Io, che sono troppo impaziente, li precedo. (…) Penso sia meglio concludere in tempo e in piedi una vita in cui il lavoro intellettuale significava la più pura gioia e la libertà personale il bene più alto sulla Terra.”

Oggi più che mai leggere i testi del grande scrittore austriaco, primo fra tutti, l’autobiografico Il mondo di ieri – Ricordi di un europeo appare fondamentale per capire una parte importante della storia europea e per gettare luce su come sia stato possibile per milioni di persone sprofondare in due guerre mondiali, delle quali paghiamo ancora il prezzo, in meno di vent’anni.

Rudyard Kipling e la Grande Guerra, dall’interventismo più acceso al trauma

Rudyard Kipling

Quando scoppia la guerra, nell’agosto del 1914, gli intellettuali inglesi, ma lo stesso discorso vale per gli studenti universitari, reagiscono perlopiù in modo favorevole al conflitto. Come accade anche negli altri paesi, il nazionalismo e quindi l’entusiasmo per la nuova avventura della guerra attecchiscono in modo massiccio tra le persone con una più alta scolarizzazione e un più alto livello culturale. È proprio la cultura, paradossalmente, a consentire di idealizzare la guerra, ragionandoci sopra e indorando la pillola fino a farne un’esperienza quasi mistica, alla quale non si può non partecipare. Se si unisce il tutto al fortissimo spirito nazionale ed imperialista diffusosi a mani basse tra il finire dell’Ottocento e questo primo scorcio di Novecento precedente la guerra, si può, forse, cominciare ad intuire l’attrazione esercitata dalla partecipazione ad un nuovo conflitto europeo su tante persone dotate di elevata cultura. Se, poi, si vuole cercare un riscontro pratico a questa situazione, basti pensare che, per restare al caso inglese, il tasso di mortalità durante la guerra tra gli studenti di Oxfrod e Cambridge (ma il risultato non cambia per le altre università inglesi meno note) è stato di gran lunga più elevato, in confronto a quello dei giovani della stessa età che non erano parte del mondo universitario. Non a caso, ancora oggi sia ad Oxford sia a Cambridge si possono incontrare diverse targhe commemorative degli studenti morti o dispersi tra il 1914 e il 1918.

Gli intellettuali e gli studenti universitari, dunque, spesso e volentieri non vedono l’ora di partire per il fronte e vanno a rinforzare le lunghe file davanti agli uffici di reclutamento che si vedono durante i primi tempi del conflitto soprattutto in Inghilterra, dove il fenomeno è particolarmente vistoso.

Nel momento in cui, il 4 agosto 1914, l’Inghilterra dichiara guerra alla Germania, Rudyard Kipling sta decisamente dalla parte degli interventisti più accesi. È da un pezzo che mette in guardia la nazione, nel caso scoppi una guerra. Secondo lui, l’Inghilterra non può assolutamente permettersi di farsi trovare impreparata allo scoppio del conflitto. Era opinione abbastanza diffusa, infatti, prima dell’estate del 1914, che il noto scrittore inglese fosse un sostenitore anche troppo acceso dell’imperialismo britannico.

John Kipling

Nei fatidici primi giorni d’agosto del 1914 ,dunque, Kipling ripone tutte le speranze sul figlio John, di soli 17 anni. Il padre, nonostante la giovanissima età, lo spinge in tutti i modi possibili verso l’arruolamento volontario, per partecipare allo sforzo bellico britannico. Per Kipling è assolutamente doveroso e irrinunciabile che John partecipi ad un momento tanto solenne della storia dell’impero britannico. È così che, l’anno seguente, John finalmente entra nell’esercito, riempiendo di orgoglio il già famoso padre, sempre più convinto delle sue idee imperialiste a favore della guerra in corso.
John Kipling, dunque, parte per il fronte occidentale a soli 18 anni, con il pieno appoggio della famiglia. Vale la pena di ricordare che non sarà affatto l’unico giovane della sua generazione a seguire questo destino. Alla fine di settembre del 1915, dunque, John si trova nel mezzo di quella che oggi si ricorda come la battaglia di Loos, sul fronte occidentale. Tanto per dare un’idea generale della situazione, nel 1915 la guerra è ormai dilagata ovunque e si sono già viste battaglie di enormi proporzioni, con conseguenti grandi numeri di uomini fuori combattimento. Si è già visto l’uso dei gas asfissianti, si conosce già il catastrofico fallimento dello sbarco a Gallipoli, in Turchia, durante la primavera e l’illusione della guerra breve ormai è definitivamente al tramonto. 

Il 27 settembre è il giorno che cambierà la vita sia di John Kipling, sia di suo padre che tanto ha insistito affinché diventasse un volontario di guerra. Dopo essere uscito dalla sua trincea insieme alle ondate di soldati inglesi che vanno all’attacco, John viene dichiarato  ufficialmente disperso alla fine della giornata. Nessuno sa esattamente che fine abbia fatto, dopo essere uscito dalla trincea. Non si riescono a trovare testimoni che sappiano indicare dove sia finito. L’unica cosa certa è che, giunta la sera, John non è tra coloro che sono rientrati alla base, dopo le varie ondate di attacchi della giornata.

Un memoriale ai dispersi inglesi nel quale compare il nome di John Kipling

Quando Rudyard Kipling apprende che il figlio John è stato dichiarato disperso durante la battaglia di Loos, il 27 settembre 1915, si ritrova immerso in un profondissimo trauma. Per la prima volta, il suo interventismo sfrenato si scontra con la realtà della guerra che macina morti ogni giorno. Il trauma è talmente grande che né lui, né la moglie saranno in grado di accettare, per diversi anni, il fatto che John sia morto. Entrambi sanno bene che la definizione “disperso” significa che, essendo la guerra violentissima, non è stato possibile recuperare o identificare i resti del figlio, ma non vogliono accettarlo.
Ancora a distanza di tre anni da quell’infausto 27 settembre, Rudyard Kipling oppone resistenza alle reiterate richieste da parte dell’esercito di dichiarare ufficialmente deceduto il figlio John. Alla fine, però, di fronte all’ennesima richiesta da parte dei militari, deve arrendersi. L’esercito riesce, quindi, a dichiarare in modo ufficiale la morte di John Kipling, con molto ritardo.
Il padre di John, però, non si arrende. Per lungo tempo ha coltivato l’illusione che il figlio possa essere finito prigioniero in Germania ma col tempo anch’essa è svanita, lasciando il posto all’angoscia per non aver mai saputo con certezza cosa ne sia stato dell’amato John. Pur di conoscere i dettagli della sua sorte durante la battaglia di Loos, quel 27 settembre del 1915, Rudyard Kipling è disposto a tutto.
È così che, a guerra appena finita, Kipling si mette in contatto con tutti i compagni di trincea del figlio che riesce a trovare. Li riempie di domande e prende appunti su tutto quanto gli riferiscono.
Questi contatti gli forniscono due informazioni. La prima è che quando, quel 27 settembre, John è stato visto per l’ultima volta, si dibatteva nel fango, urlando per le ferite. La seconda è che, attraverso le testimonianze dei compagni di John, è possibile individuare dove si trova esattamente la trincea presso la quale è stato visto l’ultima volta. A questo punto, Rudyard Kipling è pronto ad intraprendere un viaggio in Francia, per visitare il luogo presso il quale il figlio ha trovato la morte in guerra.

La tomba di John Kipling

Kipling, dunque, si imbarca per la Francia e giunge nella zona di combattimento dove, alla fine di settembre di qualche anno prima, è scomparso il figlio. Grazie agli appunti raccolti quando ha preso contatto con i compagni di John, è in grado di raggiungere e identificare l’esatto punto dove questo è stato visto per l’ultima volta, nella terra di nessuno.
Quando si trova lì, Rudyard Kipling si dedica ad una spasmodica ricerca dei resti del figlio. Vuole ad ogni costo trovare un brandello di uniforme o un qualsiasi resto del corpo di John, per mettersi l’anima in pace ed essere certo oltre ogni dubbio che lui sia morto proprio lì, come sostiene l’esercito.
Kipling, dunque, cerca avanti e indietro, arriva perfino a scavare alla ricerca di qualche resto identificabile, ma di John non c’è traccia. Nonostante gli sforzi, Kipling deve tornare in Inghilterra senza aver trovato alcun riscontro. Deve accontentarsi delle testimonianze dei compagni di trincea di John, già raccolte in precedenza.
Vale la pena ricordare tra le altre cose, che Rudyard Kipling è stato uno dei più noti dipendenti dell’Imperial War Graves Commission (ora non si chiama più Imperial, ma Commomwealth), l’ente inglese che si occupa della sepoltura, della ricerca dei corpi dei soldati inglesi morti per cause di guerra e del mantenimento dei cimiteri militari inglesi in tutto il mondo. Kipling, ad esempio, ha contribuito attivamente alla scelta della frase che compare in tutti i cimiteri militari inglesi: Their name liveth for ever more (il loro nome viva per sempre).
Durante tutta la sua vita, Kipling ha portato dentro di sé il trauma e il senso di colpa per la morte del figlio, di cui si sentiva diretto responsabile. Questa frase, contenuta in una delle sue poesie, sembra quasi essere una risposta a quanti si chiedono se avesse cambiato idea sulla guerra, dopo gli eventi che, nel 1915, hanno portato alla morte del figlio John: se qualcuno domanderà perché i figli sono morti, dite loro “perché i loro padri hanno mentito”.
Rudyard Kipling morirà nel 1936, senza aver trovato altre notizie sulla morte del figlio John. Una sessantina d’anni dopo, invece, sono riemersi in Francia i suoi resti, identificati grazie al lavoro della Commomwealth War Graves Commission. In questo modo è stato possibile dare finalmente una sepoltura a John Kipling, presso il cimitero di St. Mary’s A. D. S., ad Haisnes in Francia, nella zona di Pas de Calais.

I War Poets inglesi nella Grande Guerra – Robert Graves e Siegfried Sassoon

Un’altra storia alla quale sono molto legato è quella dei War Poets, un gruppo di scrittori inglesi, volontari durante la Grande Guerra, che poi hanno scritto della loro esperienza una volta tornati a casa. Sebbene alcuni, come ad esempio Rupert Brooke, Isaac Rosenberg e Wilfred Owen ci abbiano rimesso la vita, altri sono sopravvissuti. Qualche volta si sono perfino incaricati di far pubblicare i testi dei loro amici deceduti sui campi di battaglia in Europa o in Turchia.

In particolare, mi soffermerò qui su Robert Grave e Siegfried Sassoon, con qualche cenno a Wilfred Owen.

Robert Graves da giovane

Robert Graves, noto non solo per i molti testi di guerra ma anche per i molti libri sulla mitologia greca e romana, in realtà si chiamava Robert von Ranke Graves. Com’è chiaro, metà della sua famiglia veniva dalla Germania, cosa di cui i Graves andavano talmente orgogliosi da mantenere il doppio cognome, con cui iscrissero anche i figli a scuola. Le origini tedesche di Graves costituirono subito un problema per Robert, bersagliato costantemente durante la sua vita come “traditore” dell’Inghilterra a causa delle sue origini germaniche. Tra l’altro, questo del cognome tedesco fu un problema grave per molti, e ben al di là del caso di Graves. Anche Tolkien, ad esempio, avvertì come un peso il proprio cognome tedesco nel 1914, quando il pregiudizio contro qualsiasi cosa fosse anche vagamente tedesco prese il sopravvento in molti paesi, Inghilterra compresa. Se, però, nel caso di Graves o Tolkien, non il tutto non provocò mai loro difficoltà insormontabili, lo stesso non si può dire per molti altri. Furono tanti i cittadini inglesi con cognome tedesco (o sposati con donne o uomini tedeschi, oppure cittadini di nazionalità tedesca che lavoravano in territorio inglese) a subire soprusi, prevaricazioni e anche violenze, senza dimenticare l’odissea dell’internamento coatto di tutti i cittadini tedeschi residenti in Inghilterra per la durata del conflitto. È, questa, una pratica abominevole (messa in atto anche da quasi tutte le nazioni in guerra) contro i civili che sarà il primo vero banco di prova dei futuri lager nazisti, con i quali condivisero, sperimentandoli in anticipo, molte tristi modalità di reclusione, sopruso e applicazione della violenza.


Tornando a Graves, la sua parabola durante la guerra è abbastanza semplice: si arruola quasi subito, appena l’Inghilterra dichiara guerra alla Germania, per giungere in Francia all’inizio del 1915. Qui combatte perlopiù lungo il famoso saliente di Ypres, la città belga rasa al suolo proprio durante la Grande Guerra e rimasta sulla linea del fronte fino all’armistizio e, nel 1916, partecipa anche all’offensiva della Somme (dove, tra gli altri, combattono a poca distanza anche Tolkien, Ernst Jünger, Adolf Hitler e diversi altri scrittori molto noti). Militare modello secondo i canoni dell’esercito britannico in guerra, Graves viene promosso rapidamente sul campo a tenente e poi capitano.

A seguito di una pesante ferita subita sulla Somme, rientra in Inghilterra per poi, in preda all’alienazione poiché non riesce a reinserirsi tra persone che non hanno mai visto la guerra se non sui giornali, fare richiesta di tornare in prima linea contro il parere dei medici. Emblematico, a tale proposito il capitolo della sua autobiografia dedicato ad un periodo trascorso in Inghilterra, durante il quale inizia a sentire il desiderio di tornare sotto le bombe, sul fronte occidentale, pur di non dover ascoltare i commenti di quanti popolano il fronte interno. Graves, quindi, rientra in prima linea. Dopo una decina di giorni di trincea, lo rispediscono, però, definitivamente in Inghilterra, dove resta in ospedale fin quasi all’armistizio. Graves soffriva, infatti, del cosiddetto shell shock, lo shock da bomba, ovvero la sindrome post traumatica da stress dovuta alla vita in prima linea, senza contare l’indebolimento sotto il profilo fisico che non gli consente più di prestare servizio al fronte. Impiegherà una decina d’anni, secondo la sua stessa testimonianza, a riprendersi mentre, quando passeggiava per le vie universitarie ad Oxford, non appena sentiva un rumore di una porta che sbatteva da qualche parte oppure avvertiva un odore strano di cibo, si gettava a terra tremando e tentando di ripararsi il corpo, come in trincea. Le sue memorie di guerra, disponibili anche in italiano, sono raccolte nel romanzo “Addio a tutto questo”, divenuto il suo testo di gran lunga più famoso, sebbene non sia un testo rigidamente testimoniale.

Merita una menzione il fatto che Graves venga, ad esempio, dapprima accusato di essere una spia tedesca al fronte (a causa di uno scambio di persona con una spia vera che si faceva chiamare Karl Graves) e poi il fatto che venga addirittura creduto ufficialmente morto per diverse settimane, mentre se ne sta vivo e vegeto in trincea. Una delle parti più interessanti della sua esperienza negli anni della Grande Guerra, però, riguarda il suo rapporto con l’altro poeta di guerra Siegfried Sassoon, suo grande amico. È qui che le cose paiono davvero essere frutto della fantasia di qualche prolifico romanziere.

Siegfried Sasson in uniforme, durante la Grande Guerra

Graves aveva stretto un rapporto di amicizia molto intimo con Siegfried Sassoon, un altro poeta inglese che si era già fatto un nome e che diverrà particolarmente noto in seguito ai suoi scritti di guerra. I due si influenzarono reciprocamente. Sassoon ammirava moltissimo il modo di scrivere di Graves e lo esortava a continuare a scrivere poesie, dandogli anche diversi consigli. I due, inoltre, si incontravano ad ogni occasione possibile, scambiandosi anche lettere in cui si confrontavano sul modo migliore di revisionare i propri scritti.
Sassoon si fece presto un nome anche in Francia, guadagnando la reputazione di ufficiale senza paura, che assumeva spesso gli incarichi deliberatamente più rischiosi, senza badare alle conseguenze possibili. Arrivarono perfino a soprannominarlo “Mad Jack” per questa sua attitudine alle azioni ultra rischiose e qualcuno sostenne di essere sicuro che Sassoon partecipasse a quel genere di operazioni nel tentativo di suicidarsi attraverso la guerra. In ogni caso, era chiaro che l’amico di Graves era soggetto ad una grave depressione dovuta in parte allo shock per la morte del fratello, avvenuta durante lo sbarco di Gallipoli in Turchia nel 1915 (uno dei peggiori disastri inglesi, con la regia di Churchill a progettare una sorta di azione suicida) e in parte alla sua stessa esperienza al fronte, in Francia.
Sassoon, profondamente idealista ed estraneo alla logica militare, stava cominciando a manifestare idee potenzialmente pericolose, come Graves stesso (il quale era un tipo molto più pragmatico e con i piedi per terra) ebbe modo di riscontrare.

Nel 1917, Sassoon decise di scrivere una lettera aperta ai giornali. In breve, la lettera denunciava pubblicamente gli orrori delle trincee e dichiarava senza mezzi termini che la responsabilità della continuazione della guerra ricadeva direttamente sui generali e sui politici i quali, senza alcun riguardo per la vita dei soldati, gettavano benzina sul fuoco del conflitto, prolungandolo inutilmente. Il fatto incredibile è che, nonostante la censura e la pesante limitazione dei diritti civili in Inghilterra e in molte altre nazioni, in pieno 1917 la lettera di Sassoon sia stata pubblicata integralmente.
In Inghilterra si scatenò un pandemonio e, come Graves aveva intuito (ma Sassoon non aveva voluto dargli retta), tutti si scagliarono violentemente contro quest’ultimo, il soldato pieno di ardore in battaglia, Mad Jack, il quale rinnegava la guerra e ne sosteneva l’assurdità. Il comando inglese non si scompose più di tanto, limitandosi a spedire Sassoon dritto davanti alla corte marziale.

A questo punto, accadde un altro fatto quasi incredibile. Graves, profondamente allarmato per la sorte dell’amico, si rese conto che certamente il processo si sarebbe concluso con una esemplare condanna a morte, da servire su un piatto d’argento ai giornali e all’opinione pubblica inglese. A quel punto Graves (il quale aveva già avuto esperienza del funzionamento dei tribunali militari, essendo stato chiamato occasionalmente a farne parte), tenta il tutto per tutto. Senza avvertire Sassoon, sempre più preso da una sorta di delirio che gli fa credere di poter far interrompere, con le sue sole forze, la guerra, Graves si informa e, venuto a sapere i nomi dei membri della corte marziale che dovrà giudicare Sassoon, avvicina l’ufficiale che secondo lui è più malleabile e lo convince che l’amico è vittima del cosiddetto shell shock e che, in seguito ad una crisi di nervi, abbia scritto la famosa lettera ai giornali. La corte marziale, seguendo l’opinione dell’ufficiale avvicinato da Graves dichiara, così, Sassoon vittima dello shock da bomba e lo spedisce a curarsi in Inghilterra, presso l’ospedale di Craiglockart, specializzato nella riabilitazione di questo genere di traumi.
Ma la storia di Graves e Sassoon (e della lettera contro la guerra) non finisce in modo tanto semplice.

Nel 1917, dunque, Sassoon giunge all’ospedale di Craiglockart. Sebbene ancora i metodi siano primordiali, l’Inghilterra è all’avanguardia nel trattamento di questo genere di problemi. Qui, in ospedale, Mad Jack incontra proprio l’amico Robert Graves, il quale si trova lì, come detto più sopra, dopo essere stato rimandato indietro dal fronte occidentale.
Graves mantiene il riserbo assoluto sulla sua azione di influenza sui militari che hanno giudicato Sassoon per la faccenda della lettera spedita ai giornali e tiene per sé la soddisfazione per aver evitato la sicura fucilazione del grande amico. Durante la permanenza a Craiglockart, lo osserva mentre, tra attacchi ora di idealismo, ora di depressione, cerca di farsi una ragione del fallimento del suo appello contro la guerra. Nulla, infatti, è cambiato. Come Graves aveva intuito subito, la lettera del suo amico scrittore, sebbene pubblicata senza difficoltà , e senza censure, non ha prodotto alcun risultato apprezzabile. Ad ogni modo, Sassoon è vivo, anche se non domato e questo per Robert Graves è sufficiente.
Mentre i due si trovano a Craiglockart parlando di guerra, ritorno al fronte e poesia, conoscono un altro ufficiale appena rientrato dalla Francia e vittima di shock da bomba a sua volta. È Wilfred Owen, un ragazzo dall’aria innocente con il passatempo della poesia. Owen, dopo essere rimasto sepolto, da solo, per tre giorni sotto i detriti dello scoppio di una granata tedesca con soltanto una candela a fargli luce, ha rischiato la fucilazione per codardia. Il comandante della sua trincea sulla Somme, infatti, non credeva all’esistenza dello shock da bomba e, vedendolo tremare in preda a pesanti vuoti di memoria, l’aveva minacciato di denuncia e fucilazione, sostenendo che quelli di Owen fossero dei chiari segnali di codardia. Fortunatamente per Owen, però, il medico militare della dressing station più vicina, non la pensa così e lo spedisce nelle retrovie, dove lo inviano in Inghilterra, a Craiglockart.

Wilfred Owen

Sassoon, così come anche Graves, intuisce subito il talento del giovane ufficiale e lo invita caldamente a scrivere, scrivere e scrivere poesie, dandogli moltissimi consigli per migliorare i suoi scritti. Owen diviene, così, molto amico di Sassoon e anche di Graves, tanto da partecipare perfino al matrimonio di quest’ultimo, nella primavera del 1918.
Sarà proprio nel 1918 che Sassoon, nonostante sia un sorvegliato speciale per il comando inglese, verrà rimandato in Francia, in prima linea. Pare che Owen, influenzato profondamente dall’amico poeta, abbia preso da qui la sua decisione di farsi rimandare a combattere a sua volta, durante l’estate. Ai primi di settembre del 1918, combattendo di nuovo sul fronte occidentale, Owen viene anche decorato con una medaglia al valore militare, sebbene non riuscirà mai ad indossarla sull’uniforme.

Nella notte tra il 3 e il 4 novembre 1918, una settimana prima dell’armistizio, Owen partecipa ad una delle ultime sanguinose offensive dell’esercito inglese. Presso il fiume Sambre, dunque, gli inglesi subiscono una carneficina notevole e, tra i deceduti, c’è anche Owen.
Una settimana più tardi, mentre le campane suonano a festa in Inghilterra per la firma dell’armistizio, la madre di Wilfred riceverà la lettera che le comunica la morte del figlio. Anche Robert Graves apprenderà la notizia quello stesso giorno, quando viene siglato l’armistizio, dopo quattro feroci anni di guerra.

La tomba di Wilfred Owen nel cimitero di Ors, in Francia

Sarà, dopo il conflitto, Sassoon, il suo mentore, a far pubblicare per la prima volta in volume, postume, le poesie di Owen. Oggi Wilfred Owen è considerato universalmente il più famoso e dotato poeta di guerra, studiato ovunque in Inghilterra (ma in italiano mai tradotto). Da allora, quando si dice War Poets, subito l’associazione di idee porta a Wilfred Owen.
Dopo la guerra, ciascuno riprenderà lentamene e faticosamente la propria vita, con Graves a fare i conti con lo shock da bomba e a tentare di costruirsi una vita letteraria. Nel 1927 pubblica per la prima volta Goodbye to all that, Addio a tutto questo, il suo famosissimo memoriale di guerra. Nel frattempo, dopo molti anni dalla fine del conflitto, ha confessato a Sassoon di essere stato lui ad influenzare il tribunale militare, consentendogli di avere salva la vita, nel 1917. Sassoon, idealista fino all’eccesso come sempre, prende la cosa come un’offesa personale e sostiene che Graves non avesse alcun diritto di agire in quel modo. Secondo Sassoon, sarebbe stato molto meglio se Graves avesse consentito al comando inglese di condannarlo a morte. Nonostante Graves tenti di farlo ragionare, Sassoon è irremovibile e tronca ogni rapporto col vecchio amico poeta. Fu anche questo, una decina d’anni dopo la fine della guerra, a far decidere Graves per l’abbandono del suolo inglese, da cui il titolo del suo famoso testo di memorie.