Un paio di estratti dal libro La Morte attende tranquilla (Meligrana Editore, 2018)

Oggi propongo un paio di estratti dal mio primo romanzo, La Morte attende tranquilla (Meligrana Editore, 2018).

La copertina del romanzo

Come ho spiegato in un precedente articolo, il libro è ambientato tra Inghilterra e Francia durante la Grande Guerra. Il suo protagonista Geoffrey Coleman, uno studente universitario inglese, attraversa una profonda crisi personale dovuta ad un amore bruciante ed ossessivo nei confronti di una donna conosciuta qualche anno prima. È, questo, uno dei temi portanti del romanzo, presente continuamente proprio per un deliberato tentativo, da parte mia, di mettere in scena una mente in preda a pensieri ossessivi d’amore. L’incessante ripetizione di questo tema, quindi, non rappresenta mancanza di fantasia ma un volontario intento di addentrarsi nei meandri del pensiero ossessivo. Specifico, come ho fatto nell’articolo di presentazione del libro, che non si tratta di ossessione di tipo violento, in quanto è la disinformazione alla quale siamo ormai abituati a puntare sempre morbosamente l’attenzione sui casi in cui l’ossessione sfocia in violenza ma, di per sé, un pensiero ossessivo non è violento.

In questo primo estratto, dunque, si parla proprio d’amore. Geoffrey sta ricordando il momento nel quale la vista di Lisbeth, la donna che non riesce a dimenticare, l’ha accecato al punto da impedirgli di ragionare lucidamente. L’aspetto sviluppato nel romanzo, quindi, non riguarda le modalità con le quali Lisbeth e Geoffrey si conoscono o cosa esattamente sia accaduto tra loro (tutto ciò è volutamente lasciato nel vago, nel mistero), ma l’ossessione sperimentata da Geoffrey in quanto tale.

Dopo il testo, è presente anche un breve video (niente di ipertecnologico, ma solo un mio esperimento alla ricerca di mezzi diversi di presentare un estratto del libro) nel quale, mentre scorrono le immagini, leggo io stesso il testo.

Qui la citazione dell’estratto:

Ed eccoti, finalmente. Mi stavo ancora guardando attorno, quand’ecco che davanti a me si aprì una visione, che bloccò il mio sguardo. Ti vidi. Lisbeth, tu, bellissima, luminosa col tuo sorriso splendido. Ti vidi parlare non so più con chi, ma io ormai vedevo solo te, nel tuo fulgore. Vidi quindi, come in un’atmosfera sospesa, come in un altrove magico, i tuoi occhi sempre luccicanti, la tua bocca che attirava baci, i tuoi capelli biondi che aumentavano la bellezza del viso, il corpo stretto in un vestito perfettamente aderente al tuo profilo, forse anche più aderente di quanto fosse in realtà. Un vestito che ai miei occhi sembrava creato apposta per esaltare la tua bellezza. Ecco, ti vidi così e non ti dimenticai più. Continuai ad osservarti ammaliato, incapace di distogliere lo sguardo, mentre sorridevi e muovevi le mani disinvolta, al punto che perfino quei piccoli movimenti mi sembravano perfetti. Perdetti la testa e, non appena i miei occhi fissavano qualcosa di diverso da te, ecco che subito il cervello li faceva roteare sulla scena per ritrovarti. Dov’eri? Avevo perso qualche tuo fotogramma in una posa differente, non notata prima? Se non ti trovavo subito, mi sembrava che il mio cuore avesse perso un battito. Dovevo ritrovare al più presto la tua immagine, dovevo memorizzare quanti più dettagli della tua figura prima che fosse troppo tardi, prima che ripiombassi, alla fine di quel dannato giorno, a non vederti mai più.

Senza accorgermene, la cerimonia era già cominciata. Non so come mi ritrovai in chiesa, seduto in uno dei banchi sulla destra, nelle prime file e, sempre senza sapere come, notai che mi ero appostato in una posizione dalla quale potevo scorgerti e osservarti in modo ottimale. Inutile sottolineare, a questo punto, che non ascoltai una parola durante la cerimonia per quei due amici, i quali per me avrebbero potuto benissimo sparire dalla faccia della terra. Continuai a guardarti e, senza rendermene conto, cominciai a desiderarti in modo totale. Volevo prenderti la mano, toccarti, baciarti, sentirti vicina. Volevo te e solo te, Lisbeth. Non provo alcuna vergogna a confessarti di aver passato tutto il giorno a quel modo, guardandoti e desiderandoti ansiosamente. Non provo alcuna vergogna nemmeno a confessarti che tutto ciò fu un tormento inenarrabile ma, per mia fortuna, in seguito non lo sperimentai mai più.

Qui l’estratto letto da me

Il secondo estratto che propongo si posiziona all’interno di un diario tenuto dal protagonista Geoffrey nel corso della guerra. Siamo alla data del 1 novembre 1914, quando il conflitto è iniziato da qualche mese. Nonostante il mondo, lontano dal fronte, sembri ancora integro e, a prima vista, non si notino cambiamenti particolari, le prime crepe nell’edificio del cosiddetto mondo di ieri (per citare il grande scrittore austriaco Stefan Zweig), cioè quello di prima della guerra, iniziano a mostrarsi in modo sinistro. Lo stesso Geoffrey se ne accorge durante la sua vita quotidiana e qui descrive proprio l’effetto di questa scoperta.

Ecco il testo:

1 novembre 1914

Ricominciai l’università pochi giorni dopo il funerale di Jack, ancora col cervello scombussolato dalla scomparsa del vecchio. L’ambiente universitario, apparentemente, sembrava essere sempre lo stesso. Gli antichi edifici dei vari college accoglievano gli studenti dando l’impressione che nulla dovesse mai cambiare, ma ci si accorgeva di qualcosa di diverso nell’aria. Anch’io, pur se sulle prime non notai niente, me ne resi conto dopo un paio di giorni. Mi concentrai, mettendo bene a fuoco tutta la scena: edifici, viali interni, giardini, biblioteche, andirivieni di giovani studenti e professori. Mi stupii di non averlo notato subito. Il problema era che gli studenti parevano essere visibilmente meno di quanti avrebbero dovuto. Lo si percepiva a colpo d’occhio, quasi dovunque dentro l’università. La spiegazione di quello strano fenomeno era contenuta in una sola parola: guerra. Gli studenti erano pochi perché tra agosto e settembre si era verificata una grande ondata di arruolamenti volontari per la Francia. Evidentemente gli iscritti a Oxford, ma la situazione non doveva differire molto a Cambridge o in altre università, avevano risposto in modo consistente alla chiamata alle armi, lasciando le aule semivuote.

Faceva una ben strana impressione passeggiare per i corridoi e i viali interni di Oxford, notando quegli spazi vuoti. Si sentivano molte meno voci riempire l’aria. Tutti quei giovani che avrebbero dovuto bighellonare in giro coi libri sottobraccio, in quel momento stavano probabilmente morendo dissanguati in qualche trincea fangosa nelle Fiandre o, al più, si trovavano in uno degli ospedali militari ad attendere il proprio turno per l’amputazione di un arto.

Cimitero militare inglese provvisorio, quando ancora si utilizzavano le croci per identificare le sepolture dei soldati

Pensare a tutto questo mi riempiva di orrore. Non riuscivo a smettere di vedere tutti quei ragazzi sui vent’anni sostituiti da una schiera di belle croci bianche, su un enorme prato all’inglese ben curato. Giovani uomini che avrebbero potuto laurearsi e poi aspirare a morire di vecchiaia come i loro padri, venivano invece addestrati per farsi ammazzare. Tutto ciò mi appariva intollerabile, specie quando durante certe lezioni alzavo lo sguardo dai miei appunti e constatavo per l’ennesima volta che l’aula era decisamente più vuota rispetto a qualche mese prima.

I primi giorni del mio ritorno agli studi nell’autunno del 1914, quindi, trascorsero in un misto di angoscia per la mia situazione personale e di tristezza per il crimine compiuto sotto i miei occhi impotenti, attraverso la guerra.

Pubblicato da gchiarol

Autore di romanzi e racconti

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