Il romanzo, come ho spiegato più ampiamente qui, è ambientato durante il secondo dopoguerra, ma immaginando un’evoluzione storica nella quale la Germania nazista esce vincitrice dal conflitto. Il primo estratto si svolge mentre il protagonista, Marius Klein, si sta preparando per un incarico dell’ultimo minuto come impiegato all’accoglienza dei delegati ad una conferenza del partito nazista. In particolare, viene descritta la nuova realtà del Quarto Reich, nel quale Rienhard Heydrich è il capo indiscusso della nazione. Nonostante le apparenze più presentabili, il regime del dopoguerra non è meno letale del Terzo Reich hitleriano.
Qui sotto il testo tratto dal romanzo. Per chi desidera, subito sotto, c’è anche un video in cui leggo una parte leggermente più breve dello stesso brano.

Fui puntuale, come sempre. Alle 18 del giorno successivo mi presentai come richiesto, presso la sala conferenze Hindenburg e presi servizio per il mio incarico di emergenza. Come avevo sospettato fin dal primo momento, si trattava esattamente di quanto avevo immaginato: aprire lo sportello dell’auto ai delegati in arrivo per la conferenza. L’addetto al quale per primo fui indirizzato e che mi indicò i camerini dove avrei indossato la divisa, ci tenne a farmi conoscere il titolo della conferenza: Il problema della razza nel Quarto Reich. Evoluzioni, nuove pratiche, stabilizzazione internazionale. Durante il regno della Bestia Bionda non si parlava più di soluzione finale, né di campi di eliminazione, bensì di evoluzioni, nuove pratiche e stabilizzazione internazionale. Questo era stato il capolavoro di Heydrich e della sua cerchia: riuscire nell’intento di rendere presentabile il volgare programma di eliminazione sotto il Terzo Reich di Hitler. Modificando opportunamente le parole d’ordine e chiudendo i centri di detenzione ormai sotto gli occhi di tutti, avevano fatto credere al mondo di aver accantonato il capitolo genocidario della storia tedesca. Poi era stato sufficiente eliminare dalla scena le grossolane uniformi delle SS e dei reparti della Hitlerjugend e il miracolo era stato completo. Il Terzo Reich si era trasformato senza problemi nel Quarto: uno stato di polizia in cui, utilizzando un linguaggio anestetizzato, si compivano ugualmente crimini e ingiustizie ai danni dei più deboli – gli stessi di prima, ovviamente – e la lotta senza quartiere ai poveri era divenuto un dovere civico per tutti. Mio padre Franz me l’aveva detto una volta, ma ero troppo giovane per capire appieno il significato delle sue sibilline parole. “Non c’è regime autoritario che non abbia come suo obiettivo primario la lotta contro i poveri, Marius. Più sono ricchi e potenti, più odiano i poveri. E ricorda: più sono dei volgari ignoranti, più odieranno ancora di più i poveri” aveva ammonito mio padre. Aveva ragione. Con l’avvento della Bestia Bionda in Germania, almeno apparentemente, erano scomparsi i poveri e con essi gli ebrei e i bolscevichi, i quali erano stati messi di fronte a due semplici opzioni: integrarsi, aderendo alla nuova versione del nazionalsocialismo presentabile, oppure perdere tutto e diventare le prede dei cani da caccia della Bestia Bionda. Com’era prevedibile, la grandissima maggioranza degli ebrei e dei bolscevichi si integrò in modo rapido e privo di proteste. Persero i propri nomi e cognomi, in modo da non consentire a nessuno di collegare quelle persone al loro passato ebraico o bolscevico, e acquisirono lo status di cittadini nazionalsocialisti a pieno titolo. Tenuti costantemente sotto controllo dalla polizia politica, erede della vecchia Gestapo, dovevano soltanto rigare dritto e dimostrarsi politicamente attendibili, in modo da non perdere ogni cosa, non ritrovandosi insieme a quelli che non avevano accettato di barattare identità e nome, in cambio dello status di rispettabili cittadini nazionalsocialisti. Per costoro la sorte era segnata. Prima o poi, sarebbero stati uccisi. Restava solo da stabilire quando e come. Non esistendo più i grandi centri di detenzione ed eliminazione come Auschwitz o Bergen-Belsen, il problema veniva risolto in maniera diversa. Chi era identificato come ebreo o bolscevico, perdeva tutte le sue proprietà e doveva immediatamente presentarsi ai cancelli di alcune grandi città-ghetto, fatte costruire nelle campagne verso la fine della guerra. Qui dentro la polizia e l’esercito non entravano. Il problema era che non ci entravano nemmeno le ambulanze e i camion che portavano medicinali. Nelle città-ghetto non si trovavano medici, né scuole. Periodicamente, di solito una volta ogni tre mesi, delle grandi casse venivano depositate presso gli ingressi delle città-ghetto. Al loro interno, ordinatamente impilate, si trovavano migliaia di scatole di un farmaco, il Serenax. In ciascuna scatoletta non c’era altro che un semplice blister contenente sette pillole di colore rosso. Andavano prese una volta al giorno e garantivano una morte indolore, scientificamente programmata per avvenire una volta ingerita la settima pastiglia. Dopo aver vissuto per circa tre mesi dentro una prigione a cielo aperto, nella quale vigeva totale libertà ma erano assenti sanità, scuola, giornali, cinema e libri, i reclusi che avevano rifiutato l’integrazione nazionalsocialista, vedevano l’arrivo del Serenax come una benedizione. Alcuni, pur di porre fine all’incubo di non poter più uscire dalla città-ghetto, consapevoli che in ogni caso là fuori li attendeva il Quarto Reich, riconosciuto ufficialmente da tutte le ambasciate straniere del mondo, sceglievano di ingerire più pillole contemporaneamente. Desideravano accorciare il più possibile il proprio soggiorno lì dentro, incuranti degli avvertimenti dei più saggi: il Serenax procurava sì una morte indolore, ma soltanto qualora lo si fosse preso seguendo le indicazioni, che prescrivevano rigorosamente una pillola al giorno. L’assunzione di più di una pillola provocava ugualmente la morte, ma con notevoli sofferenze. Un’altra mania degli assassini, anche se mascherati da persone perbene, era l’igiene. Anche in questo caso mio padre mi aveva avvertito: era stato lui a raccontarmi di come il sistema sanitario delle SS negli anni di Hitler, sguinzagliasse i medici nei campi di eliminazione per redarguire il personale sulla mancanza di rispetto di norme igieniche, quali l’obbligo di usare posate pulite durante i pasti e di lavarsi sempre le mani ogni volta che era possibile, mentre a pochi metri da loro migliaia di persone morivano di fame, malattie e percosse senza che nessuno battesse ciglio.
“Ehi tu! Sì, proprio tu con quell’uniforme in mano! Ti vuoi sbrigare, accidenti? Entra nel camerino e vedi se ti va bene, si sta facendo tardi!”
L’urlo improvviso della voce nel corridoio mi fece sobbalzare. Approfittando di qualche momento nel quale pareva non esserci nessuno intorno a me, mi ero distratto ed ero rimasto assorto nei miei pensieri, rimuginando sul sistema instaurato da Heydrich e dai suoi collaboratori. Non riuscivo a decidere se fossero peggio i campi di eliminazione di Hitler o le città-ghetto di Heydrich. Per evitare di dover compiere una scelta, mi fiondai nel camerino a pochi passi da me e iniziai rapidamente a cambiarmi, infilandomi l’uniforme degli addetti all’accoglienza dei delegati invitati alla conferenza, che si sarebbe tenuta quella sera.
Il camerino era male illuminato, ma fortunatamente era abbastanza spazioso. Non c’era bisogno di fare strane contorsioni per cambiarsi d’abito. L’uniforme sembrava della taglia giusta. Solo la giacca appariva un po’ troppo larga di spalle. Constatai con sollievo che la foggia del vestiario assegnato agli impiegati come me era sobria, come per tutto il Quarto Reich. Heydrich aveva compiuto uno sforzo enorme per eliminare quasi tutte le tracce di eccentricità nell’esibizione del potere governativo. Le tronfie coreografie di Hitler erano state sostituite da un’estetica scarna ed essenziale, a permeare ogni cosa. Negli anni Trenta una conferenza simile a quella che stava per avere inizio, avrebbe comportato la presenza di SS in divisa, camicie brune, camion e Heil Hitler a volontà. Per non parlare degli enormi stendardi con la svastica appesi ovunque. Ora, invece, gli addetti all’accoglienza vestivano con una livrea interamente nera e senza simboli, i delegati stessi indossavano abiti borghesi e per quanto riguardava le svastiche, un solo stendardo trovava posto sopra l’ingresso della Sala Hindenburg. Tutto ciò pareva rendere molto più borghese e presentabile il regime del Quarto Reich, di quanto non fosse mai apparso il Terzo, pieno di estetica paramilitare a far da contorno alle urla impazzite di Hitler. Tutto sommato, era la stessa cosa accaduta ai campi di eliminazione. Più sobriamente, verso la fine della guerra erano stati sostituiti con le città-ghetto, per poi essere gradualmente chiuse anche quelle, dal momento che ebrei, bolscevichi o oppositori politici duri e puri non ne esistevano più. Nel 1951 in Germania c’erano solo due possibilità per queste categorie di persone: l’integrazione nel nazionalsocialismo, oppure l’arresto da parte della polizia politica, il che comportava invariabilmente la morte del detenuto entro qualche ora. Ogni cosa avveniva in modo silenzioso e fuori dalla vista dei cittadini ariani. L’apparato di sorveglianza della polizia politica ormai era oliato a dovere, dopo un lungo periodo di sperimentazione durante gli anni della Gestapo, e anche l’onnipresente sistema della delazione aveva raggiunto una perfezione invidiabile, tale da ridurre al minimo la necessità di azioni clamorose da parte delle autorità.
Nel secondo brano che propongo, invece, Marius è appena uscito di casa per recarsi ad un appuntamento con i suoi due amici Karlse ed Antonov, quando si accorge di qualcosa che non va. In una Berlino immersa nel gelo dell’inverno alle porte, nella quale i potenziali delatori si nascondono ovunque e la polizia circola con auto senza insegne per arrestare gli oppositori senza clamore, Marius si rende conto di essere seguito da qualcuno.
Qui il testo tratto dal romanzo:
Quando uscii di casa per recarmi all’incontro con Karlsen e Antonov, il cielo minacciava pioggia. Mi strinsi nel cappotto e mi calai il cappello bene in testa, sperando che le nuvole trattenessero l’acqua, almeno per quella sera. Nel covo dove io e i miei due amici ci riunivamo, ricordavo di aver visto un ombrello ma in quel momento, camminando spedito per le vie umide della città, non ne avevo portato uno con me.
Mentre rimuginavo sull’eventualità di ritrovarmi inzuppato di pioggia da un momento all’altro, con la coda dell’occhio notai di sfuggita un passante, intabarrato in un pesante cappotto attraversare la strada e venire sul mio stesso lato della via. Pensai di aver adocchiato uno dei rari passanti che si avventuravano fuori di casa dopo cena, con quel tempo incerto. Un evento decisamente raro, in quella stagione.

Ero quasi giunto nei pressi della fermata dell’autobus che mi avrebbe condotto verso il nascondiglio dove mi attendevano Karlsen e Antonov, quando passai davanti alle vetrine di un negozio di abbigliamento. Per qualche strano motivo, mi tornò in mente lo scambio di battute tra me e Antonov, quando ci eravamo fermati davanti ad un’altra vetrina simile, il giorno in cui lui mi aveva aspettato fuori dall’ufficio postale. Ricordavo di aver commentato come gli abiti esposti somigliassero troppo a quelli indossati abitualmente da Heydrich. Antonov aveva sardonicamente replicato, domandandomi se mi fossi accorto solo in quel momento che quella era la moda ormai imperante. Perlomeno, il dialogo si era svolto in termini simili.
Mi bloccai, quasi senza rendermene conto, e cominciai a dare un’occhiata alla vetrina davanti a me. Alcuni faretti illuminavano la merce esposta, ovvero diversi vestiti piuttosto eleganti da uomo. Ancora una volta, potei constatare come la foggia degli abiti richiamasse fin troppo quella abitualmente esibita da Heydrich e da altri pezzi grossi del partito.
Stavo sorridendo amaramente, quando notai un movimento alla mia sinistra, pochi passi più indietro. Vidi l’uomo che aveva attraversato la strada qualche minuto prima, fermarsi davanti a un portone lì vicino. Lo sconosciuto sembrava scorrere con un dito i nomi sui campanelli, alla ricerca di quello che gli interessava.
Sapevo di essere in anticipo sull’orario dell’appuntamento ma, nel timore di attardarmi troppo, ripresi il cammino verso la fermata dell’autobus e abbandonai le mie tristi considerazioni su come perfino la moda fosse influenzata dal nazionalsocialismo.
Fu una decina di metri più avanti, che ebbi un tuffo al cuore e cominciai ad avere paura. Avevo appena oltrepassato un attraversamento pedonale quando, dietro di me, udii il rumore secco prodotto da qualcuno che aveva appena calpestato il coperchio metallico di un tombino.
Mi voltai istintivamente, colto di sorpresa dal rumore, e impiegai meno di un secondo per riconoscere chi aveva pestato il tombino. Si trattava dello stesso uomo di prima, quello che aveva attraversato la strada e, poco dopo, si era fermato a scrutare i campanelli accanto al portone.
Nonostante il tonfo al cuore e la successiva tachicardia che avvertii, mi costrinsi a tornare a guardare avanti, continuando a camminare come se nulla fosse. Ormai era chiaro che l’uomo mi stava seguendo. Quando si era messo a leggere i nomi sui campanelli, doveva essere stato colto in contropiede dalla mia improvvisa sosta davanti alla vetrina e così, probabilmente, aveva pensato di fermarsi lì, per non dare nell’occhio.
Cosa accidenti voleva da me quell’uomo? Perché continuava a seguirmi? E, cosa ancora più urgente, in quel momento: come fare per seminarlo?
Troppe domande tutte insieme. Tirai su la manica del cappotto e guardai nervosamente l’orologio. Avevo soltanto quattro minuti per raggiungere la fermata dell’autobus, così da non presentarmi in ritardo da Karlsen e Antonov. Mentre mi sforzavo di continuare a camminare senza voltarmi, pensai che fosse necessario mettere in secondo piano la puntualità. La priorità era liberarmi dell’inseguitore.
A qualche metro di distanza, vidi una strada laterale aprirsi a sinistra. Quando giunsi all’angolo, svoltai improvvisamente e ci entrai dentro, accelerando il passo. Qualche istante più tardi, sperando di risultare disinvolto e di non allarmare il mio inseguitore, dapprima alzai la testa per osservare il cielo a destra e a sinistra, e poi mi voltai quel tanto che bastava per inquadrare il marciapiede alle mie spalle. Lui si trovava ancora lì, come previsto. Aveva svoltato dentro la laterale e, quando mi voltai verso di lui, si era girato di scatto ad osservare qualcosa dall’altra parte della strada. A quel punto non c’erano più dubbi: il dannato sconosciuto ce l’aveva con me.
Mi serviva un’idea per tirarmi fuori da quella situazione potenzialmente pericolosa. Mi serviva subito, non potevo permettermi di perdere tempo.
Il mio cervello mulinava a vuoto alla ricerca di una soluzione, quando all’improvviso una lampadina mi si accese nel cervello. Clic. Mi ricordai che proprio in quella zona, a non più di un paio di minuti di cammino, si trovava un bar aperto anche di sera, frequentato da diversi uomini che non desideravano starsene da soli in casa, così si riunivano lì per bere qualche birra e chiacchierare. In quel locale lavorava un mio vecchio compagno di scuola, col quale ero rimasto saltuariamente in contatto.
Velocizzai nuovamente il passo, dirigendomi senza indugio verso il bar. Non ne ricordavo nemmeno il nome, ma l’importante era ricordarne la collocazione. Almeno per quello non c’erano problemi.
Giunsi nei pressi di un incrocio e attraversai la strada sulla destra, mentre un automobilista strombazzava il clacson contro di me, reo di essermi buttato in mezzo alla strada con troppa disinvoltura. Iniziai a sentire qualche minuscola goccia di pioggia sul viso, ma non ci feci quasi caso. Qualche attimo più tardi dovetti rallentare leggermente l’andatura, poiché avevo il fiato grosso. Dopo aver percorso un’altra ventina di metri, poco più avanti individuai la piccola insegna rossa del bar.
Quando arrivai davanti alla porta d’ingresso, mi fermai un momento e guardai prima a destra e poi a sinistra. Il mio uomo stava procedendo ancora verso di me, con molta calma. Probabilmente continuava a nutrire qualche speranza di non essere stato notato.
Spinsi con decisione la porta ed entrai nel bar, sperando di trovarvi il mio compagno di scuola di turno. All’interno c’era una decina di uomini, intenti a bere e chiacchierare, mentre la radio gracchiava qualche motivetto tirolese. Una densa nube di fumo azzurrognolo rendeva l’aria pesante, costringendomi a socchiudere gli occhi per inquadrare meglio la scena. Per una volta, riflettei, il fumo poteva giovarmi. Anche il mio inseguitore, infatti, una volta entrato lì dentro avrebbe sperimentato le mie stesse difficoltà.
Grazie al cielo, individuai quasi subito il mio compagno di scuola. Stava portando un paio di birre a un tavolo a non più di qualche passo da me. Sbirciai rapidamente fuori dalla vetrina del bar. Proprio in quel momento lo sconosciuto entrò nel riquadro del vetro, fermandosi a guardare dentro, sebbene una sottile tendina bianca non dovesse rendergli tanto facile il compito.
Senza perdere altro tempo, mi avvicinai al mio vecchio amico, il quale aveva appena posato il vassoio sul tavolo e stava tornando sui suoi passi, verso il banco.
“Ehi Hans, aspetta un momento” dissi, prendendolo per un braccio. “Scusami, ma non ho tempo per i convenevoli. Sono Marius Klein, il tuo vecchio compagno di scuola e ho bisogno di un favore.”
Hans fece un’espressione meravigliata ma non si scompose, né fece strane domande.
Dopo un attimo di incertezza, disse soltanto: “Certo. Quale favore?”
“Ce l’avete un’uscita sul retro in questo bar? Oppure un magazzino dal quale uscire senza dare nell’occhio?”
Hans mi spinse verso il banco, facendomi poi strada verso una porta di legno con su scritto Cucina – vietato l’accesso. Quando entrammo lì dentro, feci appena in tempo a vedere, con la coda dell’occhio, il mio inseguitore entrare nel locale.
Hans richiuse la porta alle nostre spalle e domandò: “Non per farmi gli affari tuoi Marius, ma che accidenti stai combinando?”
“Ti chiedo scusa per essere piombato qui in questo modo” replicai, nel sincero tentativo di scusarmi “ma c’è un uomo che mi segue. Non so cosa voglia da me, ma ho urgente bisogno di seminarlo. È appena entrato nel bar, l’ho visto un attimo prima che tu chiudessi la porta della cucina.”
Hans scosse la testa, indirizzandomi un sorriso a metà tra un vero sorriso e una smorfia.
“Tu non sei mai andato d’accordo con quei maledetti nazionalsocialisti, vero Klein?” domandò retoricamente Hans.
“Era così evidente perfino a scuola?”
Hans sorrise, sul serio stavolta.
“Sì lo era, dannato filibustiere. C’ero anch’io quando quel subdolo del professor Dorff ti rimproverava, ricordi?”
Stavo per controbattere, quando la porta della cucina si aprì, d’un colpo. Per un momento ebbi il terrore che si trattasse del mio inseguitore, giunto lì ad arrestarmi per conto della polizia politica, ma era soltanto un collega di Hans.
“Hans, cosa ci fai qui? Ti vuoi decidere a tornare di là? C’è un nuovo cliente da servire” lo apostrofò senza tanti complimenti l’altro cameriere.
Hans ribatté: “Sì, arrivo tra un momento. Il cliente credo che potrà aspettare un minuto.”
Il collega di Hans uscì subito dalla cucina, lasciandoci soli. A quell’ora il bar non serviva più piatti caldi e così non si vedevano cuochi lì dentro. C’erano solamente un paio di lavapiatti, i quali non prestavano attenzione a noi due.
“Dai, vieni” mi esortò Hans “non possiamo stare qui tutta la notte.”
Mi afferrò per un braccio e mi condusse dalla parte opposta della cucina, dove si trovava una porta piuttosto stretta accanto ad una finestrella, dalla quale era impossibile vedere l’esterno, tanto era sporca.
“Ecco, questa è l’uscita sul retro. Al tuo inseguitore ci penso io, non preoccuparti” dichiarò Hans, senza dare segni di inquietudine. Avrei desiderato possedere anch’io un po’ della sua serafica calma.
“Grazie, vecchio mio, ti devo un favore” dissi, sperando di dimostrargli gratitudine.
Stavo per aprire la porta, ma mi voltai un momento ancora verso di lui.
“Senti Hans, come faccio ad arrivare alla fermata 14 dell’autobus, senza passare davanti al bar?”
Hans fece un sorriso sornione, come a dire che stava aspettando proprio quella domanda.
Poi mi spiegò: “Cammina sul lato destro della via e, quando arrivi all’angolo col panificio, svolta lì dentro. Prendi la prima laterale a destra e ti ritroverai sulla via principale. Capito?”
“Capito, grazie Hans!” esclamai mantenendo basso il volume della voce e tuffandomi fuori dalla cucina del bar.
Le indicazioni del mio vecchio compagno si rivelarono precisissime e così potei riprendere la via per la fermata dell’autobus, sebbene ormai fossi in ritardo di almeno un quarto d’ora.
Una opinione su "Due estratti dal romanzo La crepa (Meligrana Editore, 2019)"