Quello che troverete qui sotto è un racconto (mio), che vorrebbe indurre a riflettere sulla Giornata della Memoria, per riuscire a estendere la riflessione anche al di fuori di questo giorno particolare, secondo tre imperativi: ricordare, conoscere e diffondere una storia che non deve ripetersi.
Dopo il racconto trova spazio una riflessione più generale sulla Giornata della Memoria e sulle molte lacune che essa porta inestricabilmente con sé.
AVVERTENZA: il testo del racconto è riproducibile SOLAMENTE CITANDO ESPLICITAMENTE AUTORE E TITOLO e riproducendolo INTEGRALMENTE. Qualsiasi riproduzione PARZIALE NON È CONSENTITA.
Il sole splendeva alto nel cielo autunnale di dicembre, mentre la bambina giocava nel giardino di casa. Ilse stava spingendo piano con la mano una piccola altalena che il suo papà aveva agganciato, non senza un po’ di fatica, al grosso ramo di un albero, in giardino. Ilse non aveva voglia, almeno per il momento, di salire sull’altalena. Le piaceva molto starsene lì a osservare il movimento oscillante dell’altalena, che andava avanti e indietro sotto la spinta leggera della sua manina.
Ilse aveva da poco compiuto sette anni. Era una bambina vivace e allegra, nonostante le riuscisse difficile comprendere con immediatezza le parole che gli adulti le rivolgevano. Aveva quasi sempre bisogno di farsi ripetere le cose, per iniziare ad afferrarne il senso. La sua mamma e il suo papà se n’erano accorti presto, messi in allarme anche dal ritardo con cui Ilse, rispetto agli altri bambini, aveva iniziato a dire le sue prime parole. Oltre a questo, avevano dovuto fare i conti con la mancanza di coordinazione della loro figlioletta nei movimenti. Spesso, infatti, si notava che la bambina si trovava in seria difficoltà quando doveva spostarsi per afferrare un giocattolo, oppure doveva salire le scale di casa per andare a dormire nella sua cameretta, al piano di sopra. Ciononostante, la sua mamma e il suo papà le volevano molto bene e desideravano il meglio per lei. Erano sempre affettuosi e pieni di attenzioni per quella bambina speciale, che era loro figlia. Ecco perché il suo papà aveva acconsentito volentieri a installare l’altalena in giardino, pur sapendo che Ilse ci sarebbe salita di rado e solo quando uno dei genitori fosse stato presente. A lui, così come alla mamma, non importava tutto ciò. Gli importava soltanto che Ilse fosse felice e ogni volta che la osservava, cogliendo il suo sguardo rapito e sorridente mentre sospingeva il sedile dell’altalena con la mano, diceva a se stesso di aver fatto la scelta giusta, assecondando il desiderio di sua figlia di possedere una piccola altalena in giardino.
Nel frattempo, l’autunno stava per essere soppiantato dall’inverno, di lì a non molto. La nuova stagione incipiente avanzava a grandi passi, quell’anno, a quanto era dato vedere. Era il 1940 e, mentre gli alberi erano già quasi tutti spogli, dopo essersi tinti di giallo e arancione per un breve periodo, la nuova guerra, nella quale la Germania era entrata, procedeva senza lasciar intravvedere la possibilità di una conclusione nel breve periodo. Anzi, pareva che, a giudicare dalle notizie filtranti dalla zona di guerra, gli scontri si stessero espandendo a macchia d’olio. C’era da credere che, prima o poi, molte altre nazioni avrebbero deciso di partecipare, volenti o nolenti, al conflitto. Pareva davvero incredibile, al papà di Ilse, che si stesse davvero combattendo una violentissima guerra, in quello stesso istante, da qualche parte, mentre lui se ne stava lì, alla finestra, a fissare la sua bambina baloccarsi con la nuova altalena appesa al grande albero, in giardino. Pareva impossibile che decine di migliaia di uomini, tra i quali si potevano contare innumerevoli schiere di ragazzi, a malapena divenuti adulti, stessero morendo dissanguati, in quel preciso momento, mentre la mamma di Ilse era uscita per fare compere in paese. Eppure – pensò il papà di Ilse con un velo di tristezza – le cose stavano proprio così.
Nell’attimo in cui stava per domandarsi se quella sciagurata guerra, voluta da coloro che reggevano le sorti della Germania, ormai da tanti anni, avrebbe finito col coinvolgere anche lui e la sua famiglia, si udì il campanello di casa suonare. Chi poteva essere? Probabilmente il postino – si disse il papà di Ilse – sorridendo. Abbandonata per qualche momento la finestra, mentre la bambina seguitava a far dondolare lentamente il sedile dell’altalena, il papà di Ilse andò alla porta e, sbirciando da una finestra, constatò che era stato proprio il postino a suonare.
Aperto l’uscio, il papà di Ilse salutò: “Buongiorno, Joseph!”
“Buongiorno a lei, Hans!” rispose prontamente il postino. “Ho qui una lettera per lei e la signora.”
Joseph porse una busta al papà di Ilse, lo salutò e proseguì subito con il suo giro di consegne della posta.
Rientrato in casa, il papà di Ilse si bloccò di colpo, quando lesse l’intestazione della busta che teneva tra le mani. La lettera proveniva dalla scuola alla quale lui e sua moglie volevano far accedere la loro figlioletta. Ne avevano sentito parlare da alcuni conoscenti e, dopo aver chiesto informazioni in giro, avevano constatato che tutti ne dicevano un gran bene. Si trattava di una scuola particolare, per bambini con disabilità più o meno consistenti, nella quale gli insegnanti erano preparati ad affrontare i bisogni speciali di questi bambini afflitti da diversi tipi di difficoltà. Appurato che la scuola possedeva un’ottima reputazione, il papà e la mamma di Ilse avevano provveduto a chiedere un colloquio con il preside e, ricevuta un’ottima impressione dell’istituto scolastico, avevano seguito il suo consiglio e inoltrato una richiesta di ammissione per Ilse. Speravano, così, di offrire alla loro bambina la possibilità di ricevere una buona istruzione, unitamente a una particolare attenzione verso le sue necessità speciali.
Era trascorsa soltanto qualche settimana, da quando la domanda era stata consegnata, e così il papà di Ilse non si aspettava di ricevere già una risposta, considerando l’alto numero di famiglie che volevano far studiare lì i loro figli.
Rigirandosi la busta tra le mani, il papà di Ilse si domandò se aprirla subito o attendere il ritorno a casa di sua moglie. Dopo qualche attimo di incertezza, si risolse per la prima opzione, desideroso com’era di conoscere la risposta dell’amministrazione della scuola. Prima di procedere, si recò nuovamente alla finestra per controllare che Ilse stesse bene. La bambina stava ora giocando con un mucchietto di foglie secche, da poco cadute dall’albero cui era agganciata l’altalena. Ne raccoglieva alcune tra le mani e poi le lanciava allegramente per aria, osservando attentamente gli strani volteggi con cui ricadevano a terra.
Sorridendo, il papà di Ilse scartò la busta senza allontanarsi dalla finestra, in modo da poter gettare sempre un’occhiata alla figlia. Posata la busta strappata su un tavolo, lì accanto, il papà di Ilse aprì l’unico foglio in essa contenuto e lo lesse. Si trattava di poche, laconiche, righe.
Gentili signori Geuze,
con la presente abbiamo il piacere di comunicarvi che l’amministrazione della nostra scuola ha accettato la domanda di ammissione per vostra figlia Ilse Geuze. Siete pregati di accompagnare la bambina a scuola lunedì prossimo alle ore 8.30, munita di tutto l’occorrente per soggiornare nel nostro istituto. Si raccomanda la massima puntualità.
Distinti saluti,
il Direttore
Dopo aver letto lo scarno testo della lettera, il papà di Ilse non sapeva se rallegrarsi per l’ammissione della figlia in quella scuola o se preoccuparsi per il suo destino. Lo impensieriva non poco la clausola che imponeva ai genitori di lasciare i figli per tutta la settimana a scuola, compresi il sabato e la domenica. Ad ogni modo – si ripeté il papà di Ilse – lui e sua moglie avrebbero fatto almeno un tentativo per capire se quell’istituto, di cui tutti solevano parlare con termini entusiastici, fosse adatta alla loro figlioletta. In caso di perplessità o ripensamenti – non mancò di rilevare il papà di Ilse, proseguendo il ragionamento – avrebbero sempre potuto andarla a prendere per riportarla a casa.
Fu così che, dopo aver reso partecipe anche sua moglie della notizia dell’ammissione alla nuova scuola, i giorni seguenti trascorsero in uno clima piuttosto frenetico e surreale, tra corse su e giù per la casa in cerca dei capi di vestiario più adatti da mettere nella valigia di Ilse e puntate nei negozi del paese per rifornirla di tutto quanto potesse esserle utile per questa nuova esperienza, che stava per iniziare nella sua giovanissima vita.
Ilse, dal canto suo, non parve troppo preoccupata per i cambiamenti in arrivo. Affrontò l’agitazione dei genitori con il sorriso sulle labbra, considerandolo quasi uno strambo gioco al quale il suo papà e la sua mamma avevano deciso di farla partecipare. Anche lei, nonostante le incertezze nei movimenti, aiutò i genitori a preparare le valigie con tutto il necessario.
Venne, infine, il giorno in cui il papà e la mamma di Ilse accompagnarono la figlia a scuola. Era un lunedì e il tempo si manteneva ancora sereno e soleggiato, con soltanto qualche nuvoletta bianca a punteggiare, qua e là, il cielo freddo di dicembre. Di lì a poco sarebbe giunto il Natale e, nonostante la guerra e le preoccupazioni per la bambina, il papà e la mamma di Ilse desideravano trascorrerlo tutti insieme, spensieratamente.
Ilse entrò a scuola senza protestare, ritenendo ancora di essere immersa in un gioco piuttosto pittoresco, del quale non comprendeva le regole, ma al quale desiderava partecipare per far felici il suo papà e la sua mamma, che le volevano tanto bene. La bambina fu presa in consegna da Lotte, un’insegnante sorridente e rassicurante, che illustrò ai suoi genitori il funzionamento della scuola, inducendoli a non avere preoccupazioni, perché tutti gli insegnanti si sarebbero presi cura con costanza e attenzione dei bambini speciali ammessi a frequentare l’istituto.
Le prime due settimane trascorsero piene di angoscia e laceranti dubbi, per il papà e la mamma di Ilse. Entrambi seguitavano a chiedersi se avessero fatto bene a insistere tanto per iscriverla a quella scuola; se la bambina ci si trovasse bene; se avesse bisogno dei suoi genitori, in certi momenti della giornata; se gli insegnanti fossero davvero così bravi come tutti andavano dicendo; se non fosse preferibile trovare una soluzione alternativa e riportare subito Ilse a casa.
Roso dai ripensamenti, dalle incertezze e dall’angoscia, un giorno – mancava poco più di una settimana a Natale – il papà di Ilse si decise ad andare in paese per telefonare alla scuola e chiedere informazioni su sua figlia. Le regole prevedevano il divieto di visitare i bambini durante la settimana, compresi i sabati e le domeniche, e anche la proibizione di parlare al telefono con loro. Il papà di Ilse, però, era deciso a farsi dire come stava sua figlia. Non ci stava a rimanere in quello stato di sospensione angosciosa ancora a lungo.
Fu così che, ottenuta, finalmente la linea, spiegò di essere il papà di Ilse Geuze e di voler subito sapere come stava sua figlia.
All’altro capo della linea, una voce femminile spiegò: “Gentile signore, comprendo la sua richiesta, ma le regole della scuola, che anche lei ha sottoscritto, impongono ai genitori di non comunicare con i bambini, per il loro stesso bene, al di fuori dei periodi di vacanza prescritti. Se non ha ricevuto comunicazioni dalla direzione, significa che tutto procede per il meglio. La prego di non insistere ad occupare la nostra linea telefonica con chiamate inopportune come questa. Buona giornata.”
Il papà di Ilse non ebbe nemmeno il tempo di azzardare una replica, poiché chiunque gli avesse risposto mise giù il telefono, chiudendo la comunicazione. Ogni altro tentativo di mettersi in contatto con la scuola andò a vuoto, nonostante la determinazione del papà di Ilse e, una volta che fu informata della situazione, anche della sua mamma.
Giunse, così, il tempo delle vacanze natalizie. Il giorno prima di recarsi alla scuola per riportare Ilse a casa, il suo papà e la sua mamma erano ormai decisi a non affidarla più alle cure dell’istituto, dopo la pausa festiva. Qualcosa non li convinceva, in quella scuola, sebbene tutti seguitassero a rassicurarli, vista la sua ottima reputazione. Perché a scuola nessuno voleva rispondere alle loro domande? Perché, dopo la seconda telefonata, continuava a cadere sempre la linea? Domande senza risposta, che inducevano i due preoccupati genitori a voler riportare la figlia a casa.
Quando giunsero davanti alla scuola, il giorno previsto per la fine delle lezioni in occasione delle vacanze di Natale, però, il papà e la mamma di Ilse ebbero una brutta sorpresa. In una giornata grigia e fredda, che pareva promettere neve di lì a non molto, si videro negato l’accesso da un manipolo di agenti di polizia, piazzati proprio davanti al cancello del grande edificio scolastico. Alle rimostranze del papà e della mamma di Ilse, cui si unirono alcuni altri genitori, fu risposto che la direzione aveva chiesto l’assistenza della polizia per il bene dei bambini, che avevano bisogno ancora di qualche giorno di permanenza a scuola, prima di essere rimandati a casa per le vacanze.
Non parvero esserci genitori particolarmente convinti da quella spiegazione lacunosa, ma non ci fu niente da fare. I poliziotti impedivano a chiunque di avvicinarsi, minacciandolo di arresto. Inoltre, nessun funzionario della scuola volle presentarsi per rassicurare i genitori. Tutti furono costretti a tornare sui loro passi, verso casa, senza portare con sé i figli. Un papà fu addirittura strattonato da un agente e condotto in commissariato per accertamenti, dopo aver alzato la voce, richiedendo di vedere subito suo figlio.
Il papà e la mamma di Ilse si consultarono con altri genitori nella loro stessa situazione, dopo quell’increscioso e inquietante episodio, ma la cosa li gettò nello sconforto più cupo anziché infondere loro coraggio. Vennero, infatti, a conoscenza di strane voci che circolavano sulle scuole speciali per i bambini disabili. Voci tali da far rizzare i capelli a chiunque, tanto più a dei genitori già afflitti dalle preoccupazioni più grandi. Il papà e la mamma di Ilse, ad ogni buon conto, non vollero credere a queste dicerie allarmanti, delle quali non parevano esserci prove.
Giunse quindi, tra un’angoscia l’altra, il gennaio del nuovo anno, il 1941. I genitori dei bambini che frequentavano la scuola di Ilse si stavano organizzando, per mettere in atto una protesta pubblica davanti all’istituto, in modo che finalmente le autorità li prendessero sul serio e consentissero loro di accedere alla scuola, per vedere i loro figli e riportarli a casa. Proprio il giorno prima di una riunione che prevedeva la partecipazione della maggioranza di questi genitori, per stabilire il giorno della manifestazione, il papà e la mamma di Ilse udirono il campanello di casa suonare. Com’era accaduto il giorno in cui aveva ricevuto la lettera di ammissione dalla scuola, il papà di Ilse ritenne fosse stato il postino Joseph ad aver suonato.
In effetti, anche questa volta era così. Joseph, il postino, se ne stava lì davanti, piuttosto impacciato, con un pacchetto in mano, senza dire una parola.
“Buongiorno Joseph!” lo salutò il papà di Ilse, contento di vedere davanti a sé una faccia amica.
Joseph se ne restò lì, senza dire una parola, pallido in volto.
“Si può sapere cosa ti succede, Joseph?” lo interrogò il papà di Ilse. “È per me quel pacco?”
Finalmente, dopo quella che parve un’eternità, Joseph si riscosse e balbettò: “Sì… Sì, Hans… Ecco, vedi… Mi dispiace…”
Joseph porse il pacchetto al papà di Ilse, che lo prese in mano meccanicamente, senza capire cosa stesse accadendo. Gli parve la scena di un’opera teatrale venuta male, priva di copione, in cui nemmeno gli attori sanno cosa stanno facendo.
Joseph non consentì al papà di Ilse di dire altro. Girò i tacchi rapidamente, quasi temesse di scottarsi, rimanendo per un secondo, ancora, in quella posizione, lì, davanti al suo vecchio amico Hans, e se ne andò più in fretta che poté.
Esterrefatto, il papà di Ilse rientrò in casa e chiuse la porta dietro di sé.
“Era Joseph?” domandò la mamma di Ilse.
“Sì, ma aveva qualcosa che non andava. Si è comportato come un pazzo” commentò il papà di Ilse.
“Un pazzo?”
“Già. Ha farfugliato qualche parola, mi ha messo in mano questo pacco e se n’è andato senza salutare.”
“Chi è il mittente?”
Il mittente, accidenti! Il papà di Ilse, ancora incredulo per la scena cui aveva appena assistito, non aveva pensato di verificare chi gli avesse inviato il pacchetto che seguitava a tenere in mano. Osservando con attenzione, trovò, scritti in piccolo, i dati che cercava. Quando li lesse, spalancò gli occhi, pensando di avere un’allucinazione.
“Proviene dalla scuola di Ilse!” esclamò, senza capire perché mai gli avessero inviato un pacco.
“La scuola? Ma dai, avrai letto male!” lo rimproverò sua moglie.
Il papà di Ilse, però, sapeva benissimo di non avere affatto letto male. Il pacco proveniva dalla scuola. Senza replicare alle parole della mamma di Ilse, decise di aprire subito il pacchetto per scoprire cosa accidenti fosse saltato in testa ai funzionari della scuola.
Il papà di Ilse scartò il pacco con foga, in preda ad un’agitazione crescente, finché gli riuscì di strappare via la carta che lo avvolgeva, gettandola rabbiosamente da parte. Ciò che gli rimase tra le mani era un contenitore di ferro, o di qualche materiale simile, di forma cilindrica.
“Guarda lì, c’è un biglietto! Esclamò nervosamente la mamma di Ilse indicando qualcosa, vicino alla carta strappata, sul pavimento.
Il papà di Ilse seguì la direzione dell’indice di sua moglie e vide che, effettivamente, un biglietto c’era davvero. Nella foga di aprire il pacchetto, non se n’era nemmeno accorto. Posò, dunque, il contenitore di ferro sul tavolo e raccolse il biglietto.
Le parole che il papà di Ilse lesse ad alta voce erano queste:
Gentili signori Geuze,
siamo dolenti di comunicarvi che vostra figlia Ilse è stata vittima di un malore mentre si trovava in camera, a dormire. Nonostante il pronto intervento del nostro personale medico, non è stato possibile rianimarla. Ilse è deceduta due giorni fa nel nostro istituto. Certi di fare cosa gradita e di risparmiarvi un ulteriore dolore, vi inviamo in questo contenitore le ceneri di vostra figlia.
Distinti saluti,
il Direttore
Il papà di Ilse dovette rileggere molte volte le poche, scarne, righe del biglietto che accompagnava il cilindro di ferro, prima di riuscire a comprenderle. La mamma di Ilse, nel frattempo, seguitava a tempestarlo di domande, nel tentativo di capire cosa stesse accadendo. Poi, persa la pazienza, gli strappò di mano il biglietto, leggendolo a sua volta.
La mamma di Ilse non ebbe bisogno di rileggerlo, per afferrarne il terrificante senso. Con un grido, che udirono perfino i vicini, mise le mani sul contenitore di ferro e lo aprì. Mentre ne svitava il coperchio, l’oggetto le scivolò dalle mani, andando a schiantarsi a terra con un gran frastuono tintinnante. Un attimo dopo, il pavimento bianco del soggiorno fu ricoperto da una polvere grigia, che schizzò anche sui vestiti dei due genitori atterriti.
Era cenere. Scura e densa. In quel momento, il papà e la mamma di Ilse seppero che la loro bambina sorridente di sette anni, invece di frequentare la scuola, era diventata un mucchietto di cenere, sparsa sul pavimento della loro casa.
POST SCRIPTUM: Ilse Geuze è stata una bambina vera, sebbene questo sia un racconto letterario. Ilse viveva in una fattoria, in Austria. Nel dicembre del 1940 i suoi genitori ricevettero una lettera, con la quale veniva ammessa a una scuola per bambini disabili, nel castello di Hartheim. Ilse, così, lasciò la sua casa, il suo papà e la sua mamma. A scuola non erano ammesse né visite, né telefonate. Nel gennaio del 1941 il papà e la mamma di Ilse ricevettero un’urna contenente le ceneri della loro bambina. (Fonte: Auschwitz Memorial and Exhibition)


Questo pezzo è stato pubblicato per la prima volta circa un paio d’anni fa. Lo ripropongo nuovamente, con qualche aggiunta e, qua e là, qualche piccolo aggiustamento. Lo faccio perché le questioni poste in evidenza in passato sembrano essere ancora perfettamente valide oggi. Forse, paradossalmente, oggi sono ancora più valide di prima, giacché siamo in presenza di inquietanti rigurgiti fascisti che hanno portato il nostro sciagurato Paese ad avere niente meno che un governo fascio-nazista che si rifà apertamente e, dopo anni di indottrinamento sulla “memoria condivisa” e sul fatto che l’antifascismo sia soltanto un’opinione tra le tante, senza nemmeno più nascondersi, a tutto ciò che ha a che fare con il ventennio fascista e il dodicennio nazista. Viviamo in un Paese che mai ha fatto i conti col proprio passato e specialmente col fascismo e con le sue origini, vale a dire la Grande Guerra. Viviamo nel Paese in cui un Ministro degli Interni (ma sarà ancora il caso di usare le maiuscole?) ha potuto impunemente (e nell’indifferenza generale) equiparare bellamente le foibe ad Auschwitz. Viviamo, dopo tutto, nel Paese che non riesce a sciogliere Casapound e tutta l’accozzaglia di organizzazioni fasciste che le stanno intorno. Viviamo in Italia, insomma: il Paese dove non manca mai la citazione da Se questo è un uomo, ma manca sempre la constatazione che fu un delatore italiano a far arrestare Primo Levi e i suoi compagni resistenti in mezzo alle montagne e che furono i fascisti a spedirlo a Fossoli, da dove partivano i convogli ferroviari diretti in Germania o, come nel suo caso, ad Auschwitz. Ecco il perché della riproposizione di questo pezzo sull’ennesima incipiente Giornata della Memoria che, ora più che mai, dovrebbe finalmente diventare un’occasione preziosa per ricordare, conoscere, comprendere e diffondere una conoscenza non superficiale di uno dei (molti) periodi bui della storia contemporanea.
Lo ammetto subito. Non sono mai stato un amante delle giornate intitolate a ricordare qualcosa. Ci sono troppe giornate e troppe persone che si lavano la coscienza grazie al fatto di aver ‘ricordato’ qualcosa in una certa data del calendario. A cosa servono, dunque, le giornate come quella della Memoria istituita il 27 gennaio?
Dovrebbero servire a ricordare, a tenere attiva la memoria. In realtà, è vero tutto ciò? O non è, più che altro, maquillage? Forse sarò controcorrente, non lo so, ma ho sempre di più l’impressione che la Giornata della Memoria sia solo un vuoto esercizio retorico per lavarsi la coscienza e versare la lacrimuccia d’ordinanza sul destino delle vittime dello sterminio nazista. Non riesco a liberarmi dalla sensazione che si ricordi solo ciò che fa comodo ricordare, tralasciando tutto il resto.
Ci si limita sempre di più a sottolineare quanto i tedeschi fossero cattivi, condividendo magari la classica immagine del binario ferroviario all’ingresso del campo di Auschwitz come inderogabile corollario, ma ci si guarda bene dall’approfondire la questione.
Vorrei, dunque, buttare lì qualche domanda alla quale in uno spazio come questo non sarà possibile dare risposta. A volte, però, l’importante è iniziare a farsele, le domande, soprattutto in tema di sterminio nazista e argomenti correlati, perché la memoria non deve essere selettiva. La memoria deve mantenere in vita tutto ciò che può aiutare a chiarire una questione, anche quando si tratta di argomenti scomodi.
Siamo italiani. Perché nessuno ricorda (o, se lo fa, non lo fa con la dovuta insistenza) quanto l’Italia fascista abbia collaborato attivamente allo sterminio e alla persecuzione degli ebrei? Perché nessuno si sforza di ricordare fino in fondo le leggi razziali italiane? Leggi che, giustamente, lo storico Michele Sarfatti (tra i massimi esperti di storia degli ebrei d’Italia e della loro persecuzione) ha proposto di definire per ciò che sono: leggi razziste. Perché nessuno si sforza di elencare le nefandezze di Mussolini e dei suoi collaboratori? Perché, insomma, il ruolo degli italiani non viene mai ricordato, come se esistessero solo i nazisti? Ci si concentra su Primo Levi (quando fa comodo e senza contestualizzarlo in modo corretto, di solito), ma chi fu ad arrestare Levi nel 1943? E ancora: come mai nessuno ricorda che il delatore grazie al quale fu tratto in arresto era italianissimo? E perché, per una volta, non si cominciano a leggere gli altri testi di Levi come, ad esempio, Il sistema periodico, per citarne uno più accessibile di Se questo è un uomo?
Vogliamo poi parlare della ‘celebrazione’ della Giornata della Memoria in un paese come il nostro, in cui non si sono mai fatti i conti col fascismo, con i risultati che sono sotto gli occhi di chiunque non abbia spento completamente il cervello? Si può fare una Giornata della Memoria in una nazione che non conosce nemmeno l’esistenza dei campi di concentramento e internamento fascisti (italiani, dunque, non dei nazisti)? Qualcuno ha mai sentito parlare del campo di Monigo, dove tanti civili hanno trovato la morte tra il 1942 e il 1943? Si trova alle porte di Treviso, chi abita nel nord est come me dovrebbe conoscerlo, ma non è così. Oppure il campo impiantato in terra jugoslava, nell’isola di Arbe dove migliaia di uomini, donne e bambini furono tenuti in tende fatiscenti in pieno inverno, senza medicine né cibo, provocandone spesso e volentieri la morte. Perché nessuno lo ricorda, sottolineando che era un campo italiano e non nazista?
Giornata della Memoria, ma a corrente alternata. L’elenco sarebbe pressoché infinito, ma qualcosa va pur detto. I crimini italiani, fascisti, in Jugoslavia, ad esempio. Perché nessuno ricorda l’invasione (senza dichiarazione di guerra) della Jugoslavia, nel 1941, dell’esercito italiano al fianco di quello nazista? Perché non si ricordano i paesi incendiati (con o senza persone dentro, indifferentemente), le deportazioni, i processi sommari, la trasformazione di Lubiana in un lager a cielo aperto nel corso di una notte? Perché non si ricorda la pulizia etnica attuata dal Regio Esercito tra il 1941 e il 1943 in queste terre? Tutto ad opera degli italiani. Perché i cattivi sono sempre e solo i nazisti? Non parliamo poi del colonialismo italiano in Africa, terreno sperimentale per le leggi di razziste contro gli ebrei. Qualcuno sa che la strage di copti di Debrà Libanos è stata la più grande ad aver coinvolto dei cristiani nel XX secolo e fu messa in atto dagli italiani? Nessuno li ricorda più, i copti di Debrà Libanos, forse perché la loro pelle era nera anziché bianca. Ma proseguiamo pure a dire che i cattivi erano solamente i nazisti.
Vogliamo parlare della Risiera di San Sabba, a Trieste? E via con la stanza degli orrori nazisti. Ma a Trieste e in tutto l’Adriatisches Künstenland (la Zona Operazioni Litorale Adriatico) c’erano anche gli italiani della RSI, che si prodigarono in tutti i modi per aiutare i nazisti a dare la caccia agli ebrei e agli oppositori politici, spedendoli in Risiera (accertandosi prima di averli derubati e percossi). Perché nessuno parla del ruolo della polizia italiana di Trieste nella persecuzione e deportazione degli ebrei e degli oppositori della città che gli italiani desideravano possedere fin dalla Grande Guerra? Perché nessuno parla dei collaborazionisti italiani (alcuni anche ebrei, purtroppo) che aiutarono le SS di Odilo Globocnik, il responsabile della polizia nazista e delle stesse SS di Trieste? Che dire, ad esempio, del ruolo svolto dal questore e dal prefetto di nomina fascista durante l’occupazione nazista di Trieste? E che dire della parzialità inquietante che ha caratterizzato lo svolgimento del processo (ovviamente intentato contro i soli nazisti) negli anni Sessanta del Novecento per perseguire i crimini messi in atto in Risiera? Per chi fosse interessato a questi temi rimando, oltre ai saggi storici propriamente detti, anche al mio La scomparsa di Luciano Engelmann, che approfondisce con gli strumenti del romanzo storico proprio il periodo dell’occupazione nazista di Trieste (ma anche la sua storia novecentesca precedente). Il libro (che sarà presentato il prossimo 11 febbraio a Conegliano e il 16 presso il Comune di Preganziol) contiene anche una postfazione ad opera dello storico Daniele Ceschin, che contestualizza ulteriormente proprio la trasformazione della Risiera in lager, l’occupazione nazista e il ruolo dei fascisti.
Insomma, ce ne sarebbero di argomenti, compreso il fatto che ancora oggi abbiamo una politica che esalta il fascismo in continuazione, in tutto l’arco parlamentare, a partire dalla zona più destrorsa fino a quella ormai ex sinistrorsa e trasformatasi da molto tempo in una copia carbone di quella destrorsa. Ma, ovviamente, è più comodo sostenere che i cattivi sono stati sempre e solo i nazisti. Gli italiani, in fondo, erano brava gente e, se hanno partecipato in qualche modo, è stato certamente per sbaglio.
Infine, prima di chiudere, vorrei spendere due parole su Schindler’s List, il celeberrimo film di Steven Spielberg che ogni anno viene riproposto in televisione e che sembra diventato anch’esso un accessorio irrinunciabile della Giornata della Memoria, insieme alla lacrima d’ordinanza da versare a comando. Tralasciamo quanto il riproporlo associandolo alla Giornata della Memoria contribuisca a banalizzare il film. Vorrei, invece, porre qualche domanda, pur essendo consapevole di non poter fornire qui le risposte, ancora una volta. Qualcuno si è mai accorto del ruolo, più o meno previsto, che il film ha svolto nella banalizzazione di Auschwitz a cui siamo giunti? Auschwitz è diventato una specie di marchio, ormai, per indicare un sinonimo di nazismo e anche per raccattare facili successi commerciali, ad esempio con operazioni editoriali oscene nelle quali compare la parola ‘Auschwitz’ nel titolo di un libro e, allo stesso tempo, si truffano i lettori spacciando per storie vere le fantasie e le distorsioni storiche dell’autore. Nessuno si prende la briga di approfondire. Alcune di queste osservazioni le fece, ancora una volta, Michele Sarfatti molti anni fa ormai. Qualcuno ha osservato, ad esempio, che Auschwitz è stato aperto nel 1940, mentre Hitler è arrivato alla carica di Cancelliere nel lontano 1933? Qualcuno si è chiesto cosa sia accaduto durante quei sette lunghi anni? Qualcuno ha osservato che, almeno all’inizio, Auschwitz non era un campo di sterminio di massa e, almeno fino al 1942, era possibile essere rilasciati dal campo? Questo non significa che Auschwitz non fosse un campo dove si moriva in grande quantità e non significa nemmeno che non fosse fin dalle origini un abominio, ma è importante conoscere i dettagli della questione. Quanti conoscono la storia dei campi nazisti, a partire dal lontano 1933, e conoscono l’uso dello strumento legale (o meglio, extra legale) della custodia preventiva che ne ha consentito la diffusione? I politici moderni hanno tentato e tentano di continuo di riproporla in tutte le salse possibili, perché è una misura di polizia, al di fuori della legge, che piace tanto a tutti i partiti politici.
Ma torniamo per un momento ancora al film. Spielberg ha mostrato solamente la parte di storia funzionale al suo film, com’era ovvio, ma nessuno si è preoccupato di sottolineare che la storia della Germania nazista non comincia d’un colpo, con Auschwitz, e che non ci si può limitare in nessun caso a sostenere che la parola ‘Auschwitz’ spieghi tutto. Se proprio bisogna celebrare questa Giornata della Memoria (ma tra un paio di settimane inizierà l’inevitabile coro del: ‘Ma allora le foibe?’ che uscirà dalla solita cloaca fascista), almeno facciamo lo sforzo di viverlo con un minimo di consapevolezza, magari guardando il film di Spielberg con maggiore attenzione, e indirizzandoci ad approfondire tutta la nostra storia e non solo quella che più ci fa comodo. Se essa continua a ripetersi, è anche perché sempre meno persone si interessano a conoscerla fino in fondo.
Piccola bibliografia, da intendersi in modo assolutamente non esauriente:
- Primo Levi, Il sistema periodico
- Nikolaus Wachsmann, KL – Storia dei campi di concentramento nazisti
- Michele Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione
- Michele Sarfatti, Mussolioni contro gli ebrei. Cronaca dell’elaborazione delle leggi del 1938
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