AVVERTENZA / DISCLAIMER: questo testo tratta temi piuttosto forti e potrebbe, per qualcuno in condizioni mentali difficili, costituire una lettura non esattamente corroborante. Se, dunque, non siete pronti a leggere qualcosa che tratta (anche) di morte, suicidio e disturbi mentali, siete pregati caldamente di non leggere ciò che ho scritto di seguito. Credo sia giusto dare questa breve avvertenza per una forma di correttezza verso i potenziali lettori, pur non godendo, questo sito, di grande visibilità o elevati numeri di visitatori. Non ritengo probabile che qualcuno abbia commenti specifici da fare ma, qualora dovesse essere così, sappia che i commenti sono stati disabilitati proprio per via della delicatezza dei temi trattati. Chi dovesse desiderarlo può, eventualmente, comunicare con me attraverso il form presente nella sezione del sito intitolata Contatti, con il naturale limite di non essere offensivi (quando mi arrivano richieste, domande o considerazioni varie, rispondo sempre a tutti.)

Ogni cosa scomparirà, un giorno. Ogni cosa sarà stata inutile e priva di incidenza sulla realtà. Quanti amori, quante fatiche e quanti dolori svaporeranno via in un nulla cosmico, come se non fossero mai stati provati da nessuno? Impossibile quantificare con precisione, eppure accadrà esattamente questo. Non siamo in grado di prevedere cosa accadrà domattina, ma possediamo una scienza capace di illuminare gli eventi da qui a milioni di anni. Pare incredibile ma, più ci allontaniamo da una dimensione prettamente umana, più i dati in nostro possesso si fanno puntuali.
Possediamo un patrimonio di conoscenze talmente sbalorditivo da far invidia a qualunque specie, eppure seguitiamo a vivere da imbecilli. La matematica, la fisica e la chimica ci permettono una vita piena di benessere e di oggetti sofisticati, mentre l’arte, la poesia e la letteratura ci portano a inoltrarci verso vette sempre nuove di apertura mentale. La psicologia fa luce su tutte le disfunzioni alle quali potrebbe andare incontro la nostra mente, offrendoci alcune idee su come superarle. Eppure, ogni nostra singola azione ci riporta verso l’imbecillità e, inesorabilmente, verso la cecità cerebrale.
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Ti ho amata, dunque. Ti ho amata sopra ogni altra cosa. Erroneamente, certo, ma il mio amore resta un fatto. Un fatto che ha rosicato molti anni della mia vita, portandoli con sé, mentre tu non mi dedicavi nemmeno uno sguardo e gettavi tutto alle ortiche. Cos’è rimasto di questo mio amore, se amore si può definire? Già ora, non ne rimane molto.
Soltanto io, ormai, so che un bambino, molto tempo fa, dopo essere stato picchiato da un adulto, ha iniziato a sviluppare una deviazione mentale. Capita, quando questo qualcuno è una persona che dovrebbe incaricarsi di creare spazi sicuri e incontaminati per un’infanzia felice. Invece, per un malinteso desiderio di essere d’aiuto a non si sa chi, finisce col traumatizzare quel bambino. In seguito, in una sorta di effetto domino inarrestabile, il bambino cresce e sviluppa un sistema mentale nel quale crede di essere destinato sempre e solo al dolore e alla squalifica di se stesso. Crescendo, questo bambino metterà in atto tutti i possibili tentativi di individuare qualcuno in grado di restituirgli l’infanzia rubata, che ha visto interrompersi precocemente, davanti ai suoi occhi. Ma scovare questa persona sarà, ormai, impossibile perché, ahimè, l’infanzia nel frattempo sarà finita e nessuno gliela potrà restituire, intatta e incontaminata. E così, il bambino proseguirà il suo cammino inesorabile verso un dolore sempre più grande. Quello dell’infanzia perduta e non più recuperabile.
Egli elaborerà un’attrazione smodata verso ragazze, prima, e donne, poi, che crederà capaci di salvarlo dalla dannazione della sua infanzia negata, ma si sbaglierà. Esse si riveleranno solamente delle infallibili delusioni da inseguire con sempre maggiore forza, zelo e determinazione. Tanto più lo rifiuteranno, quanto più egli le rincorrerà, in un’illusione autodistruttiva di salvezza. Se solo gli riuscisse, per una volta, di raggiungerle, egli sa che potrebbe essere da loro compreso e trovare scampo dal demone che lo bracca ovunque. Ma non sa, il bambino ormai cresciuto, della maledizione che lo accompagna in ogni dove. Già, perché egli non può avvedersi di essere attratto con forza irresistibile proprio da ragazze e donne il cui tratto distintivo è quello di possedere l’incapacità emozionale di dimostrarsi empatiche; non sa che due persone tossiche non producono l’incontro di una coppia sana. E così, inserito in un malefico binario morto, il bambino ormai adulto continuerà a ricercare, allo stesso tempo, la conferma del dolore sperimentato da bambino e la salvezza da quel medesimo dolore, senza riuscire a raggiungere pienamente né l’una, né l’altra.
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Ecco come, quasi per magia, ci si ritrova a veder evaporare anni e anni della propria vita, coinvolti in una spirale autodistruttiva apparentemente senza fine e senza rimedio. Anni trascorsi a credere di amare qualcuno che, per giunta, desidera soltanto avere la più assoluta certezza del nostro annientamento perché, attraverso di esso, possiederà la certezza che non gli recheremo più alcun disturbo.
Ma, anche ammettendo la remota ipotesi che questo bambino cresciuto riesca a venire a capo della situazione e a superarla, individuando l’uscita dal tunnel, cosa resterà, alla fine, di tutto questo? Cosa resterà, insomma, di ciò che ha vissuto?
Inutile girarci intorno: non resterà quasi nulla. L’unica traccia di tutto ciò sarà rinchiusa nella sua mente. Il ricordo e la consapevolezza di quanto ha vissuto costituiranno questa labile traccia. Una traccia che nessuno sarà in grado di vedere, poiché egli la manterrà al sicuro da giudizi e frasi a vuoto, che condurrebbero solamente alla rivelazione dell’incomprensione generale da parte delle altre persone. All’esterno non resterà alcun indizio di tutti quegli anni di dolore infinito, durante i quali l’unico pensiero liberatorio è stato quello del suicidio, pur di far finire l’amore e il dolore. D’altronde, esiste un nucleo indicibile in questo genere di esperienze. È il nucleo della morte. La morte è indicibile e, di conseguenza, anche una parte importante di queste situazioni diviene indicibile.
Come dire, in effetti, ciò che si prova quando si prende una decisione e ci si dice: “D’accordo: oggi, nel pomeriggio, mi ucciderò. Sarò solo in casa, non ci sarà nessuno a disturbare o a intervenire all’ultimo secondo. Sarò libero di procedere e realizzare il mio intento”? Già: come dirlo? Anche a volerci provare, mancano sempre le parole. Si giunge fino ad un certo punto e poi, come per una sorta di maledizione alla quale è impossibile sfuggire, ci si ritrova a corto di termini e definizioni.
Perché accade tutto ciò? Per un motivo semplice, in realtà. Perché la morte è indicibile. La morte potrebbe essere detta solamente da due tipi di persone: coloro i quali l’hanno vissuta, oppure coloro i quali hanno vissuto molto a lungo in sua compagnia e le si sono avvicinati, fino ad arrivarle ad un passo e a sentirne il respiro. Purtroppo, i primi, che sarebbero i più titolati a parlarne, non possono tornare indietro a riferire la propria esperienza; i secondi, sebbene il loro vissuto non sia così adatto allo scopo come quello dei primi, potrebbero ancora essere in grado di dire qualcosa, ma non lo fanno. Non lo fanno perché non possono individuare le parole per comunicare la morte, che hanno guardato negli occhi. Anche lei, infatti, ha potuto guardarli negli occhi, non appena si sono trovati ad un passo, e questo ha provocato una cesura. Ha provocato il passaggio dal dicibile all’indicibile. Oppure, se costoro tenteranno ugualmente di dire la morte, si troveranno a contatto con il paradosso di avere tantissimo da comunicare, ma senza nessuno disposto ad ascoltarli. E, in ogni caso, quand’anche trovassero qualcuno che li ascolti, questa persona non sarebbe in grado di comprendere l’essenza del loro discorso. E così, in un perfetto circolo malefico, torniamo inesorabilmente all’indicibilità della morte.
Quanto, poi, a quell’amore-non amore totale e incondizionato di cui, o lettore ardito di questo strano testo, ti ho reso edotto poco più sopra, vale lo stesso discorso. Trattandosi di un amore-non-amore legato ad un’esperienza infantile ormai conclusa e irrecuperabile (cioè a dire: morta), esso acquisisce spontaneamente la caratteristica di un amore mortifero (dal latino mors = morte e fero = portare, mortifero = portatore di morte) che, per tornare ancora una volta al punto d’origine, non può far altro se non condurre alla morte o, comunque, vicino ad essa. E, come ormai sappiamo molto bene, nulla di ciò che attiene alla morte è realmente e totalmente dicibile.
Come dire, infatti, un amore (nonostante sia anche, allo stesso tempo, un non-amore) talmente intenso e incondizionato da far sentire chi lo vive disposto a tutto, pur di raggiungerlo? Ma non si intende, qui, un ‘disposto a tutto’ in senso generico. Si intende un ‘disposto a tutto’, nel senso, letterale, che possiede la parola tutto. Qualsiasi cosa quella persona voglia da noi, noi la faremmo. Fosse anche la morte. Se lei ci dicesse che vuole la nostra morte, noi la accontenteremmo, come nella Ballata dell’amore cieco di De André. Solo che, a differenza di quanto accade in questo profondissimo brano musicale, nel nostro caso nessuno potrà ascoltare il racconto di cosa accade a lei, cioè alla persona che amiamo, dopo la nostra morte. Non potremo ascoltarlo per due motivi: uno, perché lei, a differenza di quanto si racconta nella Ballata, non si renderà conto del proprio vuoto e dell’inutilità di averci voluto distruggere; due, perché noi siamo morti e, in quanto morti, da tutto ciò, ossia dalla sua ipotetica presa di coscienza, saremo inesorabilmente tagliati fuori per sempre. Ancora una volta, la morte è indicibile. Se nel brano di De André essa appare dicibile, è perché l’autore adotta lo stratagemma letterario (che, in realtà, è uno stratagemma obbligato, in quanto è assolutamente necessario ed è l’unico modo di ottenere lo scopo) di spostare il punto di vista su un personaggio che non muore. Il punto di vista della Ballata, infatti, nella parte finale, si sposta dal protagonista maschile (che muore contento) alla protagonista femminile, che sopravvive. In questo modo, De André può dire la morte di lui e annotare il fatto che lei si ritrovi senza niente in mano: “né il suo amore, né il suo bene / solo il sangue secco delle sue vene.”
E così, anche questo amore folle e autodistruttivo, che avrebbe bisogno più di ogni altra cosa di essere detto e conosciuto, resta confinato nella mente di chi l’ha vissuto. I motivi per dirlo sarebbero molti. Mettere in guardia altri dal commettere gli stessi errori; avvertire chi ci si trova alle prese, che è possibile scovare una via d’uscita; rendere più consapevoli le persone di fronte alle trappole della propria mente; far conoscere una rilevante parte di sé a chi ci sta intorno; far conoscere ai cosiddetti addetti ai lavori cosa pensa, prova e vive chi questi problemi li ha vissuti sulla propria pelle, per anni.
Eppure, nessuno di questi motivi produce nulla. Resta solamente l’indicibilità della morte, dopo esserle passati vicino e averle stretto la mano. Perché insistere a dire qualcosa che, al netto di ogni possibile discorso, più o meno in buonafede, nessuno è in grado di comprendere fino in fondo? Perché insistere, quando tutti pensano che sia un discorso come un altro, privo di particolari risvolti? Nessuno ha realmente tempo, nessuno può arrivare a comprendere un discorso che tenti di rendere dicibile la morte. Nessuno ha davvero voglia di ascoltare fino in fondo e con serietà un simile discorso.
Ciò che resta, a chi ha sperimentato una tale situazione su di sé, è tenerselo dentro anche quando sente che sarebbe preferibile urlarlo ai quattro venti, se non altro come sfogo. Perché, anche dopo aver trovato una via d’uscita, quella parte di vita vissuta resta comunque una parte fondamentale di sé. Una parte che non è possibile dimenticare e alla quale si pensa ogni giorno.
Tutto ciò che resta, dunque, è guardare, ogni tanto, una fotografia di quella persona, con la consapevolezza che essa non è altro, se non un’istantanea che, ormai, già non esiste più. La fotografia, che ci sentiamo quasi costretti a mettere davanti ai nostri occhi, è un’istantanea della morte, in effetti. La persona raffigurata in essa, già non c’è più. È morta, sia perché noi ci siamo costruiti di lei un’immagine mentale non corrispondente al vero, sia perché essa appartiene al passato. E il passato è, per definizione, morto. In questo caso, due volte morto. La prima, perché il passato è esaurito e non può tornare; la seconda, perché, essendo stati rifiutati da quella persona fino al punto che, se fossimo morti, per lei sarebbe stato uguale (o, forse, anche preferibile), noi non ne abbiamo vissuto nemmeno il passato mostrato dalla fotografia. Ed ecco che, indicibilmente, senza poterlo confessare ad anima viva, siamo costretti a guardare quella fotografia e poi a riguardarla ancora (e magari ad accarezzarla, nel tentativo di avvicinarci alla morte contenuta in essa), avvertendo verso quell’immagine un’attrazione quasi morbosa e irresistibile. Si tratta, semplicemente, di attrazione per la morte. Un’attrazione, e ancora una volta chiudiamo il circolo, o lettore che hai avuto l’ardire di seguirmi fin qui, indicibile. Come spiegare, in effetti, tutto ciò a qualcuno? Come spiegare perché dobbiamo guardare quella fotografia? Come spiegare che, fissando su di essa il nostro sguardo, puntiamo gli occhi sulla stessa morte che ci ha stretto la mano, quel giorno di molti anni prima, quando avevamo preso la nostra decisione? Come spiegare che si tratta di una morte che ha le sembianze di lei?
Dunque, la morte è, e resta sempre, indicibile. Si può descrivere come qualcuno muore, ma non la morte in se stessa. Ho intitolato uno dei miei libri alla morte, facendola anche diventare uno dei personaggi del racconto, eppure la morte di Geoffrey (a scanso di equivoci, non c’è spoiler in quanto questo evento è chiaro fin dalla prima pagina), il protagonista del romanzo, pur essendo riportata per ben due volte, non viene mai descritta fino in fondo, in realtà, perché è indicibile anche alla morte stessa. È lui ad averla vissuta, infatti, non lei.
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Nonostante la morte sia indicibile, possiamo dire, però, come finiremo tutti quanti noi e come finirà il nostro mondo. Certo, ancora una volta, la morte vera e propria resta fuori dalla nostra reale portata, ma la scienza ci permette di giungere alla fine dei tempi e, così, di dire qualcosa su questa stessa fine, che equivale alla morte. Grazie alla potenza e alla precisione dei calcoli matematici e dei modelli costruiti su di essi, tramite la fisica e la chimica, possiamo ottenere questo risultato apparentemente impossibile.
Basandoci su questa imponente mole di conoscenze, sappiamo che l’universo attuale è in espansione costante e che le stelle non dispongono di un’energia infinita. Certo, esse hanno una durata incommensurabile, secondo i parametri tipici degli umani, ma resta comunque inteso che la loro energia non è infinita. E resta inteso anche che l’espansione dell’Universo, sebbene noi non ne percepiamo gli effetti, è un dato di fatto matematico che, al momento, non pare in discussione. Possiamo, dunque, prevedere con sufficiente precisione il numero di milioni di anni dopo il quale il nostro Sole passerà allo stadio di nana bianca, dopo aver inghiottito e bruciato l’intera Terra. E già questo potrebbe costituire la parola fine. Definitivamente. Ma si può andare oltre. Quando diverrà una nana bianca, il Sole sarà molto più piccolo, ma con una massa enorme concentrata in una dimensione ristretta, ed emetterà un bagliore simile a quello della nostra Luna, quando è piena. Già questo pare inconcepibile. Ma protendiamo lo sguardo ancora un po’ più in là.
In seguito, mentre l’espansione dell’Universo produrrà una condizione in virtù della quale gli oggetti si troveranno a distanze sempre più sideralmente lontane gli uni dagli altri, al punto che la luce delle stelle rimaste in attività non raggiungerà più nessun oggetto, nemmeno le stelle potranno più nascere. A quel punto, tra molti milioni e milioni di miliardi di anni (una quantità di tempo semplicemente incomprensibile per noi umani, eppure esistente), accadrà che anche l’ultima stella ad emettere luce si trasformerà in nana nera. La nana nera è una stella che ha smesso di emettere luce ed è divenuta un semplice ammasso di materia inerte, che vaga nello spazio. Ogni stella è destinata, alla fine del suo ciclo di esistenza, a trasformarsi in nana nera. Da tutto ciò discende, inoltre, che anche tutti i pianeti, ormai privi di vita e di luce, saranno soltanto degli ammassi di materia inerte che vaga in uno spazio buio e silenzioso, popolato di nane nere ormai spente e non più in grado di ricominciare a pulsare con il proprio antico bagliore.
Ecco, dunque, la fine. Tutti noi, insieme alle nostre vite e ai nostri amori folli e malati, torneremo ad essere ciò che eravamo molte ere fa, all’origine dei tempi: polvere di stelle. Stavolta, però, diventeremo polvere di stelle in un Universo-Cimitero, insieme a miliardi e miliardi di ex stelle e di ex pianeti.
Tutti noi, quindi, siamo diretti verso un punto preciso: l’Universo-Cimitero dominato da una sola entità, la nana nera.Ma anche allora, tutto ciò sarà indicibile, poiché non esisterà nessun occhio umano capace di osservarlo e non esisterà nessun orecchio capace di percepirne il perfetto ed eterno silenzio.
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Il mio amore e il mio dolore sono, già ora, indicibile polvere di nana nera.
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