Bodak e la profezia nel bosco – incipit del quarto racconto tratto da La donna che attendeva il crepuscolo

Prima di muovermi, però, tornai a fissare per un’ultima volta il buio niveo che regnava all’esterno del forte.

Da Bodak e la profezia nel bosco

Ecco il quarto racconto tratto dal libro La donna che attendeva il crepuscolo (Meligrana Editore, 2020) uscito da qualche settimana. Bodak e la profezia nel bosco è stato scritto circa tre anni fa, poco dopo aver ultimato la stesura del mio primo romanzo, La Morte attende tranquilla e quando ancora la prospettiva di pubblicare dei libri a livello professionale era di là da venire.

Si tratta di un testo con un’ambientazione storica autentica, ma caratterizzato dalla presenza di un motivo che si potrebbe forse definire (pur non amando io le definizioni letterarie classiche) di tipo onirico-quasi-fantasy, in un certo senso. Ci troviamo, dunque, nel dicembre del 1915. La prima guerra mondiale infuria già da più di un anno in Europa e anche al di fuori. Non dimentichiamoci, ad esempio, dell’Impero ottomano che, con gli alleati tedeschi e austro-ungarici, combatte contro gli inglesi e i francesi; oppure non dimentichiamoci l’Africa, messa a ferro e fuoco in diverse sue parti e prosciugata ancora più del solito di risorse e uomini per la guerra degli europei; e non dimentichiamoci della guerra sui mari che vede anche il Giappone piuttosto attivo.

Nel mezzo di questa guerra sempre più incontrollabile Franz Bodak, un sottotenente austro-ungarico, si ritrova in servizio in quello che oggi è il Trentino ma che allora era l’estremo sud del Tirolo, laddove si trovava il confine tra Impero d’Austria-Ungheria e Regno d’Italia, dopo che nella primavera del 1915 i due alleati del giorno prima si erano trasformati in nemici acerrimi.

Bodak presta servizio in un luogo e in una condizione molto particolare, ovvero quella della cosiddetta ‘guerra dei forti’ sull’altopiano di Lavarone. Meno famoso del vicino altopiano di Asiago (che era in mano italiana), Lavarone è un altopiano ancora oggi molto bello da visitare, dove le tracce lasciate dalla Grande Guerra sono ovunque. A Lavarone, infatti, fu costruita una cintura di fortificazioni da montagna (che comprendeva anche dei forti nelle vicine zone di Folgaria e Luserna) allo scopo di difendere l’altopiano da un eventuale attacco italiano per penetrare all’interno del territorio austro-ungarico, magari tentando di arrivare fino a Vienna.

Il forte Gschwent/Belvedere, sull’altopiano di Lavarone come appare oggi.

È qui, dunque, in una di questa fortezze, precisamente il forte Gschwent/Belvedere (perfettamente conservato ancora oggi e sede di un ottimo museo) che Bodak si trova, sul finire dell’autunno del 1915 insieme al suo compagno d’armi ed amico Frederick Schenck, la voce narrante del racconto. Nel mezzo dell’ambiente di montagna completamente immerso nella neve, nel quale perfino la guerra viene sospesa per l’impossibilità di combattere dovuta alle proibitive condizioni atmosferiche, i due compagni e amici si ritroveranno a vivere una strana avventura mentre si trovano in perlustrazione fuori dal forte. Incontreranno, infatti, alcuni incredibili abitanti dei boschi che ricoprono quasi interamente l’altopiano di Lavarone e che cambieranno in modo imprevisto le loro vite. Il centro del racconto non è dunque la guerra in se stessa, ma soprattutto ciò che la circonda e, soprattutto, una particolare forma di amore ovvero quella che potremmo definire dell’amore amicale. Quale scenario si delinea quando due amici sviluppano un rapporto molto stretto e condividono un contatto ravvicinato con la morte, che in guerra è sempre in agguato dietro ad ogni angolo? Questo è il contesto nel quale il racconto Bodak e la profezia nel bosco prende avvio.

Ecco dunque, qui sotto, l’incipit del racconto:

Nei pressi del forte Gschwent – Lavarone, metà dicembre 1915

Un soldato nella neve, foto dell’Imperial War Museum di LOndra

La prima volta che vedemmo le luci, fu un paio di settimane circa prima del Natale del 1915. In quel periodo le attività belliche erano sospese. La neve aveva già ricoperto col suo pesante manto ogni cosa. Tutto appariva candidamente bianco, ovunque lo sguardo si posasse. Montagne, alberi, edifici. La neve si era appropriata del paesaggio naturale e, senza badare a noi uomini impegnati a fare la guerra, aveva imposto a tutti la sua legge. Con la neve alta a dominare la scena, infatti, perfino la guerra aveva dovuto arrendersi e ritirare i suoi taglienti artigli. Gli obici, finalmente, tacevano e, fatta eccezione per le consuete attività di guardia e manutenzione del forte, nulla avrebbe consentito d’intuire che fossimo nel bel mezzo di un conflitto di vaste proporzioni. Anche per gli italiani doveva valere lo stesso, poiché i loro bombardamenti erano cessati proprio in concomitanza con l’inizio delle pesanti nevicate di dicembre. Era proprio vero, come soleva ripetere Bodak, che la neve non guardava in faccia nessuno. Quando cominciava a scendere dal cielo, diceva, tutti dovevano inchinarsi alla sua maestosità.

Bodak, io e un piccolo gruppo di soldati, stavamo camminando lungo la strada che dal forte conduceva verso l’interno dell’altopiano, per perlustrare la zona al fine di individuare un punto dove fosse possibile impiantare un osservatorio avanzato fortificato, magari munito di qualche tratto trincerato. Il comandante pareva essere molto preoccupato di dimostrare al comando che il forte era integralmente protetto, in caso di attacco diretto da parte della fanteria italiana. Noi, a dire il vero, ritenevamo che si trattasse più che altro di una formalità, per proteggersi le spalle in caso di guai. Dopo gli eventi che avevano coinvolto i forti di Verle e Luserna, nei primissimi tempi della guerra infatti, nessuno credeva più all’impenetrabilità dello sbarramento fortificato di Lavarone.

Ci trovavamo, dunque, in pieno dicembre, a dover svolgere questo incarico di ricognizione. A dire il vero, secondo il calendario, l’inverno ancora non era iniziato. Le temperature estremamente rigide e le poche ore di luce diurne disponibili, però, ci fecero capire presto come, di fatto, per noi la stagione fredda si fosse già palesata. Verso le due e mezza del pomeriggio, appena usciti dal forte, il freddo intenso ci colpì subito con forza. Una leggera brezza gelida ci sferzava, nonostante avessimo avuto cura di imbacuccarci per bene nei nostri cappotti. Il sole splendeva luminoso in un cielo di un blu così intenso che sembrava di poterlo penetrare con un dito, se solo avessimo avuto il coraggio di allungare una mano verso l’alto.

Ci incamminammo, quindi, allontanandoci dal forte, accompagnati dall’insistente preoccupazione di ritrovarci presto mezzi congelati. Eravamo in cinque a comporre la nostra piccola pattuglia. Tre soldati semplici, infatti, accompagnavano Bodak e me, entrambi sottotenenti. Lungo il primo tratto della strada rimanemmo in silenzio. Soltanto qualche breve scambio tra i tre soldati che erano con noi si frapponeva al rumore scricchiolante dei nostri passi sulla neve. Era nevicato anche la sera precedente e, stando alle testimonianze delle sentinelle, andò avanti così fin quasi al mattino. La strada, dunque, era invasa dalla neve e, al momento, si poteva percorrere soltanto a piedi, con una certa fatica.

“Non so se sentirmi contento per il diversivo di questa uscita o se maledire il comandante, o chi per lui, di aver avuto quest’idea” sentenziò Bodak, ad un tratto.

Immerso com’ero ad ammirare la bellezza del niveo nitore che permeava ogni cosa attorno a me, stridendo apertamente con il contesto di guerra del quale facevamo parte, rimasi quasi scosso nell’udire la voce del mio compagno d’armi. Non riuscii, infatti, a controbattere nulla alla sua osservazione.

“Ehi, Schenck, mi hai sentito? A cosa stai pensando? Sembri essere in un’altra dimensione” sbottò Bodak, dopo qualche istante.

“Scusami, hai ragione. Stavo soltanto ammirando il panorama ricoperto di neve. Tutto qui.”

“È molto bello, infatti. La neve cambia le prospettive, quando riesce ad attecchire dappertutto. Con tutto questo bianco, pare incredibile che qui si combatta un conflitto, in fin dei conti.”

Bodak, come sempre, aveva colto alla perfezione la capacità della neve di evocare pensieri e sensazioni che, con qualsiasi altra condizione atmosferica, mai avrebbero toccato la mente di qualcuno.

Pubblicato da gchiarol

Autore di romanzi e racconti

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