Oggi, da ex chitarrista, rispolvererò uno dei miei grandi amori e proporrò un’incursione nel mondo musicale, in particolare quello dei Pink Floyd. The Wall è uno dei loro album storici, sul quale è stato scritto un buon fiume d’inchiostro. È possibile che io non aggiunga nulla di nuovo a quanto già detto ma, trattandosi di un album e di un gruppo che amo profondamente e che, inoltre, hanno avuto una certa dose d’importanza in tutto ciò che ho scritto, vorrei comunque dire qualcosa al riguardo.
Ho sentito per la prima volta The Wall da piccolo, poiché mio padre aveva comprato il disco, quand’era uscito in Italia e lo ascoltava spesso. Da allora, erano i primi anni Ottanta del secolo scorso, ho riascoltato innumerevoli volte questo capolavoro e ogni volta ho avuto l’impressione di scoprirne una sfumatura nuova.

Non mi soffermerò più di tanto sulla storia di questo doppio, perché immagino che tanti già la conoscano. Non ripercorrerò, quindi, le vicissitudini dei Pink Floyd come gruppo e, in particolare, quelle dei due personaggi dal carattere più forte che da sempre hanno caratterizzato il gruppo, Roger Waters e David Gilmour. Basti dire, per chi non lo sapesse, che il disco fu registrato in un clima di tensione costante, con i membri del gruppo che quasi non si parlavano più mentre Waters, da sempre il più prolifico compositore della band, assumeva modalità di comportamento sempre più difficili da gestire per tutti.

Veniamo dunque al disco vero e proprio. The Wall è la storia di Pink, una rockstar in crisi d’identità che deve presentarsi sul palco per forza, spinto dalle necessità improrogabili dell’industria dello spettacolo, nonostante i suoi evidenti problemi psicologici. Pink, infatti, passa da un’infanzia difficile, durante la quale il padre muore nel corso della seconda guerra mondiale, senza che lui l’abbia mai potuto conoscere e attraversa, poi, il turbolento periodo della scuola, vessato da insegnanti che non capiscono le sue velleità artistiche. Sviluppa, così, una serie di manie e fissazioni ossessive, mentre lo spettro della guerra che ha portato via suo padre incombe sempre minaccioso alle sue spalle. Senza voler ricordare tutti i dettagli, poiché ancora una volta immagino che molti li conoscano già, basti sottolineare che Pink sviluppa un’esistenza sempre più in preda al demone dell’autodistruzione finché, dopo essersi trasformato in una specie di novello Hitler (con il simbolo dei due martelli incrociati al posto della svastica), la sua stessa coscienza intenta contro di lui un processo, nel quale il giudice gli intima di abbattere il muro che lui stesso si è costruito intorno, per proteggersi da quanti gli hanno fatto del male, isolandosi completamente dal mondo esterno.

Si tratta di un’opera nella quale i demoni e i fantasmi di Roger Waters, colui che ha quasi interamente composto i brani, escono clamorosamente allo scoperto ma, come in tutti i capolavori che si rispettino, assumendo una valenza universale. Waters, infatti, ha avuto la capacità di descrivere il suo lato oscuro consentendo a chiunque di immedesimarvisi. In questo aiuta molto la musica straordinaria che si ascolta durante tutti e due dischi che compongono The Wall, senza dimenticare il fondamentale contributo alla causa dato dal chitarrista, David Gilmour. Pur essendo i rapporti tra i due, all’epoca, vicinissimi alla rottura definitiva, Gilmour è stato capace di offrire un apporto assolutamente enorme all’efficacia del capolavoro di Waters, con parti chitarristiche e vocali rimaste nella storia del rock.
La storia di Pink messa in scena nel disco è, chiaramente, in larga parte (sebbene non integralmente) legata alle vicende autobiografiche di Waters. Suo padre, infatti, Eric Fletcher Waters, morì nel 1944 durante lo sbarco di Anzio, in Italia, quando gli Alleati tentavano di risalire il nostro paese per respingere i nazisti verso la Germania. Si può dire, probabilmente, che questo abbia costituito una delle principali fonti di dolore, ma anche di stimolo artistico, nella vita di Waters. La guerra e il dolore mentale permeano completamente tutto The Wall, infatti, e questo l’ha reso una colonna sonora pressoché perfetta e inevitabile per due dei miei romanzi, giacché uno dei due parla di guerra mentre l’altro, che invece è incentrato su una ossessione d’amore, contiene in filigrana (per chi conosce bene i Floyd) una serie di riferimenti proprio a The Wall.
Da rilevare, tra l’altro, che la famiglia Waters fu pesantemente colpita da entrambe le guerre mondiali. Sebbene di solito si citi sempre e solo il padre di Waters, anche suo nonno, George Henry Waters, morì in guerra, in questo caso durante la prima guerra mondiale sul fronte occidentale.
Il dolore che si percepisce ad ogni nota e ad ogni parola, durante tutto il doppio album dei Pink Floyd, è qualcosa che colpisce come una rasoiata, quasi senza filtri, tanto Waters è riuscito a infilarlo dentro la storia del tormentato Pink. C’è, nei testi e nelle musiche di The Wall, l’essenza del dolore mentale di una persona che ha visto la sua vita irrimediabilmente rivoluzionata e, in parte, distrutta dalla presenza della guerra. È certamente, questo, un tema universale che si ritrova anche nei miei libri, ragione in più che mi fa essere particolarmente legato a quest’opera di quel maledetto genio di Roger Waters.

Va detto anche, per completezza, che dal doppio album dei Pink Floyd è stato tratto un film di Alan Parker, con Bob Geldof come protagonista, alla cui realizzazione ha contribuito lo stesso Waters, e per il quale alcuni brani sono stati registrati nuovamente o sono stati aggiunti ex novo, rispetto alla versione su disco. Sebbene personalmente preferisca la versione con sola musica, si tratta comunque di un film notevole sotto molti punti di vista e che fa da perfetto corollario alla musica dell’album.
Un po’ di anni fa, inoltre, Roger Waters ha imbastito un tour mondiale durante il quale ha riproposto l’esecuzione integrale di The Wall, traendone anche un DVD nel quale, oltre al concerto, ci sono alcune parti che mostrano Waters parlare del padre e del nonno scomparsi in guerra. Viene anche mostrata la visita fatta da Waters al cimitero militare inglese di Anzio, nel cui memoriale suo padre è ricordato.
Ci sarebbero infinite altre cose da dire su questo capolavoro inossidabile, ma lo spazio richiederebbe almeno qualche volume. Faccio soltanto un accenno, quindi, alla questione del finale del doppio album. Un finale che non è un finale, in realtà, poiché conduce ciclicamente a ritornare dall’ultimo brano, Outside the wall, al primo, In the flesh?. Se ascoltate bene l’inizio e la fine dei due brani, magari alzando il volume, si può sentire la voce di Waters pronunciare una frase spezzata in due, in cui la prima parte (Is there…) si trova alla fine di Outside the wall, mentre la sua conclusione si trova all’inizio di In the flesh? (e che suona: …where we came in?). La frase può essere ascoltata per intero, dunque, soltanto se, giunti alla fine del doppio album dei Pink Floyd, si torna al suo inizio, ricominciandone l’ascolto.
Chiudo, perciò, invitando semplicemente quanti non l’hanno mai ascoltato, a rimediare quanto prima. Per i molti, invece, che già conoscono The Wall, può sempre essere l’occasione per riascoltarlo e scoprirne nuovi elementi.